II

La passione politica

«Gli uomini tutti per lo piú, e maggiormente i piú schiavi (come siam noi), peccano tutti nel poco sentire»[1]. L’origine piú profonda dell’atteggiamento politico alfieriano è in questa frase, nella concezione della vita come forte sentire e nell’impedimento che l’oppressione politica crea a questa attività prima dell’anima umana. Nessun altro scrittore settecentesco avrebbe cercato una giustificazione simile per una lotta contro la tirannide, nessuna teoria dello Stato avrebbe posto come fine ultimo, come bene sommo degli individui la possibilità del forte sentire, ma piuttosto un equilibrato sviluppo delle virtú e della felicità razionalmente intesa. Tale è dunque il germe romantico che motiva la passione politica dell’Alfieri. Ma certo egli sentí in quella passione l’impiego piú immediato della sua forza spirituale, la soddisfazione piú libera dell’impaziente volontà di affermarsi, di ribellarsi, di distinguersi nella maniera piú violenta. Da questo primo impulso ad un’affermazione di se stesso, della propria anima insofferente ad ogni condizione esterna, da questo torbido ma intenso presentimento di una lotta piú profonda tra l’anima e le cose nasce la vocazione alla libertà, in cui si risolve ogni idea, ogni aspirazione, ogni convinzione politica alfieriana.

L’Alfieri è esente dalle origini filantropiche di molti scrittori politici del secolo, e vedremo anzi come egli consideri il popolo, la plebe ai cui casi pietosi il sentimentalismo umanitario aveva ispirato la prima ribellione ai regimi assolutistici. Egli non vede una liberazione degli uomini, di tutti gli uomini, come condizione di un progresso di cui esplicitamente non si cura (guardando piuttosto ad un passato perduto o ad un futuro di sentimenti eroici); né si può tutto adeguare a quella moda dei nobili del suo tempo, che affettavano spregiudicatezza, audacia politica per snobismo, per gusto di distinzione mondana, pronti poi a trasformarsi negli emigrati di Coblenza. Certo anche nell’Alfieri un orecchio avvertito sente la spigliatezza dell’aristocratico che azzarda le idee come le carte da gioco, che manca di una esperienza diretta, e per spregiudicato che sia verrà il giorno in cui si ricorderà con orgoglio del proprio sangue. Certo un chiarimento circa le relazioni tra l’Alfieri e la sua nobiltà può contribuire a spiegare il tono risentito dell’ultimo periodo, il rancore contro il regime egualitario francese. Ma fin d’ora insisto sulla lateralità di questo motivo di fronte alla presenza del momento politico nell’anima alfieriana; ché anzi non di momento politico, ma di passione politica dobbiamo parlare per indicare la natura entusiastica, vitale che la politica ebbe per lui. Dato che la sua domanda alla vita esigeva una propria risposta senza indugio, se si presenta l’arte tragica come possibilità di vivere energicamente, eroicamente fuori degli impacci tragici, la politica si presenta come l’atto della liberazione piú completa. Se si vuole intravedere la profondità e la eccezionalità di quella passione, la si deve considerare come simbolo di una lotta e liberazione piú sostanziale, religiosa, su cui l’Alfieri esplicitamente non arrivò. Ecco perché il fine cui tende il suo atteggiamento politico non appena nato è l’uccisione del tiranno, l’atto del liberarsi, l’affermazione di questa libertà in un gesto eccezionale, passionale che sembra appagare d’un sol colpo tutti i desideri dell’anima eroica.

E un personaggio sembra costruirsi come il santo di questa vita politica, che politica è solo per approssimazione: Bruto che pugnala Cesare, senza considerare per nulla ciò che seguí o poteva seguire al suo atto. È bene ripetere che tale è l’origine di un atteggiamento che poi cercherà di svolgersi, di arricchirsi, perfino di stabilirsi logicamente con una teoria di rapporti tra individuo e Stato, cioè con una teoria veramente politica. Ma sotto a quei tentativi piú o meno riusciti vive sottinteso il motivo personale che unico spinse l’Alfieri a farsi scrittore di cose politiche. Libertà è parola che ha mantenuto un suo primo significato inequivocabile: diritto di vivere, di costruire la propria vita secondo i propri ideali. L’Alfieri si trovava di fronte ad una negazione recisa della libertà da parte dell’assolutismo, ad una limitazione nel dispotismo illuminato, ad una pratica concreta nel costituzionalismo inglese. Solo piú tardi si vide di fronte alla libertà della repubblica francese ch’egli decisamente avversò. Presenti e tanto piú suggestivi gli esempi del passato, della libertà greca e romana. Come nacque in lui e come si consolidò l’ideale della libertà? Abbiamo detto non per filantropia, né per considerazione ottimistica della forza della ragione umana, ma principalmente come esigenza di liberazione. La testimonianza piú viva del valore assoluto che la lotta contro il tiranno aveva in lui, quasi di liberazione unica dai limiti ostili della vita, è nel sonetto 18, in cui la morte è invitata a colpire il poeta che resterà impavido, sicuro, infastidito della vita perché resa obbrobriosa dall’oppressione. L’idea della morte e del tiranno si fondono in un insieme di titanismo e di passione politica che ne diventa piú giustificata, non retorica e non utilitaristica:

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,

l’adunca falce a me brandisci innante?

Vibrala, su: me non vedrai tremante

pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer, sí, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond’io d’angosce tante

scevro rimango; e un solo breve istante

de’ miei servi natali il fallo ammenda.

Morte, a troncar l’obbrobriosa vita,

che in ceppi io traggo, io di servir non degno,

che indugi omai, se il tuo indugiar m’irrita?

Sottrammi ai re, cui sol dà orgoglio, e regno,

viltà dei piú, ch’a inferocir gl’invita,

e a prevenir dei pochi il tardo sdegno.[2]

In un clima di appassionatezza scandita su di un ritmo potente e trattenuto fino ai limiti di una clausola retorica, si svolge il motivo piú chiaro della necessità alfieriana di liberazione tragica da un’angoscia che egli sente come dovuta principalmente al servaggio politico e che i romantici piú esperti sentiranno come effetto di un servaggio piú profondo ed universale, di una natura crudele ed ostile. Accanto a questo motivo piú profondo c’erano come stimolo storico l’esempio classico, le vite plutarchiane, l’esempio inglese e le idee di Montesquieu. Quanto all’esempio classico, esso indica la costruzione in parte letteraria delle sue idee politiche e la sua simpatia per forme di libertà eroica non addomesticata, non utilitaristica, libertà e gara di eroismo, di nobiltà spirituale, di forte sentire.

Cosí poteva anche ricollegarsi a quella corrente brutiana che nell’umanesimo formò lo sfondo ideale e il pretesto alla congiura dei Pazzi o all’uccisione di Alessandro de’ Medici da parte di Lorenzino. Si ricordi in proposito che l’Alfieri ha composto un poemetto intitolato L’Etruria vendicata in cui, sulla scorta della Apologia che Lorenzino scrisse del proprio operato, dà a quel delitto privato, frutto di ambizioni e di rancori, il carattere di un gesto magnanimo, di un episodio della lotta eterna degli spiriti generosi contro i tiranni. E quel gesto del tirannicidio non va disgiunto dalla ricerca della gloria, che nell’Alfieri ebbe un valore non mai veramente deluso:

Chi serve muor; ma chi dirà ch’ei mora

l’uom, cui d’eterna fama il mondo onora?[3]

Quanto alle idee costituzionaliste di Montesquieu, corrisposero ad un suo tentativo di organizzare i rapporti tra l’individuo e lo Stato; ma piacque soprattutto a lui la pratica di indipendenza dell’individuo nell’esperienza che fece della vita pubblica inglese, cui le idee del filosofo illuminista si erano ispirate. L’Alfieri amava le conseguenze di quell’educazione libera cosí contrastante con la forma autoritaria del resto di Europa. Quel non essere sottoposto agli arbitri dei singoli o dell’autorità (donde lo sdegno per gli abusi della Rivoluzione francese soprattutto perché ledevano la libertà piú ampia dell’individuo) gli sembrava un privilegio divino. E lo toccava moltissimo la liberazione dal giogo militare che tanto lo aveva angustiato nel brevissimo tempo che serví nell’esercito piemontese: «E nel Settembre [1766] mi presentai alla prima rassegna del mio reggimento in Asti, dove compiei esattissimamente ogni dovere del mio impieguccio, abborrendolo; e non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l’anima della disciplina militare; ma non poteva esser l’anima mai d’un futuro Poeta Tragico»[4]. Tanto piú che a quel tempo sorgevano in Europa gli eserciti nazionali, dopo l’esempio di Federico II di Prussia. L’antimilitarismo dell’Alfieri è nettissimo, poiché egli partiva dall’idea non di nazione in armi (che egli solo vagamente desidererà per l’Italia futura) ma di popoli obbligati a combattere e morire per la gloria dei loro tiranni. Dice in una satira che i sudditi dei re bellicosi vengono iscritti già prima di nascere non sul registro delle nascite, ma su quello delle morti:

E quei miseri, in culla già arruolati,

Russi e Borussi schiavi, in sangue ascritti

già di morte sul libro anzi che nati.[5]

E in un’altra satira dedicata alla vita militare insiste sul valore antiliberale degli eserciti stanziali iniziati in Prussia:

Dunque, mercè la scabbia ria che invase

del Brandinburgo i Signorotti in pria,

niun scampo al viver libero rimase.[6]

Quando l’Alfieri andò in Prussia, la cosa che piú lo colpí fu la preminenza del carattere militare su di ogni altra manifestazione, ed ancora all’epoca in cui scriveva la Vita ricordava quella fastidiosa impressione con parole veementi: «All’entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al Re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d’indegnazione bensí e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il Conte di Finch, Ministro del Re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio Re, non avessi in quel giorno indossato l’uniforme. Risposigli: “Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza”. Il Re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il Cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo Novembre, abborrendola quanto bisognava»[7].

E lo stesso effetto provò in Russia, dove «vedendo la maladetta genía soldatesca sedersi sul trono di Pietroburgo piú forse ancora che su quel di Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe’ pur tanto dispregiare quei popoli, e sí furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori»[8]. Al suo ritorno in Germania, «bestemmiando e Russi e Prussi, e quanti altri sotto mentita faccia di uomini si lasciano piú che bruti malmenare in tal guisa dai loro tiranni», passando per Zorendorf dice che visitò «il campo di battaglia tra’ Russi e Prussiani, dove tante migliaja dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio»[9]. La crudezza di quest’ultimo periodo, che non porta però nessun compiacimento morboso, indica a qual punto fosse sincero nell’Alfieri un antimilitarismo in funzione del suo odio per il tiranno ed ogni strumento di oppressione ai danni dell’individuo cosciente della sua libertà, degli uomini veri. Ché in tutte le sfumature del suo pensiero sempre permane vivissima la distinzione fra uomini veri e schiavi, e se mancano in lui degli accenti di compassione per gli oppressi, l’odio per l’oppressione raggiunge la calma superiore di una seria consapevolezza: «meno mi ripugnavano le Corti del Pastorale [cioè di príncipi ecclesiastici] che quelle dello schioppo e tamburo, perché di questi due flagelli degli uomini non se ne può mai rider veramente di cuore»[10]. D’altro canto l’esempio inglese dava al suo ideale una certa concretezza di esperienza e coloriva meno utopisticamente la sua libertà. Erano anche la comodità, il benessere, la praticità che colpirono il viaggiatore di un’Europa non tutta ugualmente comoda e prospera, quando egli arrivò a Londra. In contrasto con la delusione provata a Parigi, là trovò una piacevole comodità, un senso di vita non convulso eppure vigoroso che lo conquise.

«Le strade, le osterie, i cavalli, le donne, il ben essere universale, la vita e l’attività di quell’isola, la pulizia e comodo delle case benché picciolissime, il non vi trovare pezzenti, un moto perenne di danaro e d’industria sparso egualmente nelle province che nella capitale; tutte queste doti vere ed uniche di quel fortunato e libero paese, mi rapirono l’animo a bella prima, e in due altri viaggi, oltre quello, ch’io vi ho fatti finora, non ho variato mai piú di parere, troppa essendo la differenza tra l’Inghilterra e tutto il rimanente dell’Europa in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo. Onde, benché io allora non ne studiassi profondamente la costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però abbastanza osservare e valutare gli effetti divini»[11]. Ma diversamente dalla diffusa anglomania del Settecento, questo amore è motivato e non assume mai carattere di idolatria di un popolo, essendo egli troppo lontano dal poter trovare in qualsiasi razza di uomini quegli uomini veri che solo eccezionalmente poteva riscontrare nel presente, sognare nel passato classico, presagire per il futuro del popolo italiano. Non era proprio la realizzazione del suo ideale di libero regno di uomini veri, ma rappresentava la terra che meno offriva ostacoli alla sua personalità: «non che gli individui me ne piacessero gran fatto»[12].

Inoltre a questo impaziente viaggiatore sempre infastidito dai permessi che doveva chiedere al proprio re paternalistico, la libertà doveva prendere anche l’aspetto piú semplicistico di libertà di movimento, mondo dischiuso ad ogni desiderio, non barriere elevate ad ogni passo per controllare e rallentare la possibilità dei viaggi. C’era ancora sotto quel bisogno di libertà il motivo romantico che esaltava la fresca possibilità di variare paesaggio e scenario alla propria anima tormentata. Se dunque l’Alfieri aveva della libertà non tanto un’organica idea quanto un’intuizione e un’esigenza legata al suo spirito ribelle ed irrequieto, il costante vigore con cui sempre affermò uno stato d’animo di ribellione, di non patteggiamento con gli oppressori a qualsiasi tendenza ideologica appartenessero, lo fa giustamente il primo liberale italiano: perché non di particolari problemi come il Verri, il Beccaria e altri scrittori del periodo illuministico egli si era preoccupato, né si era fatto prendere da una ventata retorica come tanti piccoli nazionalisti letterati che non vedevano altro che l’Italia della canzone petrarchesca pur seguitando a vivere non da cittadini, ma da servi; ma diede al suo nazionalismo l’ispirazione della libertà e alla libertà la base concreta di un concetto di nazione non contrattualistico, ma storico e cosciente. Perciò egli è tanto piú nuovo anche del Parini che con maggiore equilibrio vide le qualità del cittadino piú che del patriota liberale. Questo afflato di libertà non è dunque un motivo di letteratura, ma la giustificazione piú schietta dell’evasione alfieriana dai limiti posti dalle cose, da questo oscuro avversario che identifica con il tiranno e poi con ogni forma di oppressione.

«Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l’Italia: nessuna terra mi è Patria. L’arte mia son le Muse: la predominante passione, l’odio della tirannide; l’unico scopo d’ogni mio pensiero, parola, e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto, ella si manifesti o si asconda»[13]. Questa frase del 1792, quando già l’Alfieri trovava nella Rivoluzione francese una tirannide non diversa da quella delle monarchie assolute, è come l’insegna araldica d’una vita che in questa fedeltà non perse mai la sua coerenza appassionata ed esigente, bisognosa di cose assolute, irrealizzabili.

Significa anche, oltre ciò che le stesse vicende della sua vita possono dirci, l’inizio di una tradizione romantica di cercatori della propria patria, di patrioti che cercano la loro patria nell’esilio non volendo vivere senza libertà.

Dunque sentimento di libertà (si chiami pure anarchico, per quel principio anarchico che non manca mai in un’anima non disposta ad ossequiare segni e autorità perché cosí è ordinato e comunemente accettato), posizione di uomo nuovo di fronte ai compromessi del dispotismo illuminato.

Presupposto questo uomo nuovo che nasce dal momento in cui l’Alfieri ha sentito il tragico della vita, che non si può risolvere con puri espedienti di cultura, e che affonda anzi le proprie radici dove la vita è piú violenta e primitiva, egli non mirava tanto ad un governo, quanto al sogno di un popolo coerente, nazionale, disposto a vivere, non per volontà di filosofi e di re, vigorosamente una stagione d’eroismo. Non una repubblica di dei, ma una repubblica di uomini veri, che abbia sapore di volontà umana, non di moralismo astratto. Cosa volesse esattamente da quegli uomini veri, la cui origine trovava in mezzo ai popoli piú violenti, istintivi, quale educazione si proponesse, come volesse indirizzare il loro «forte sentire», non sapeva; ma sapeva che solo con quel nuovo popolo la libertà non sarebbe stata né insipida né contraddittoria. Certo questa era tanto piú utopia in quanto ai suoi occhi quelle condizioni per uno sviluppo di una nazione erano puramente inconsapevoli (la plebe spagnola, portoghese), e il presente sembrava immediatamente impicciolire per lui ogni atto eroico che, condizionato da un qualche fatto pratico, cominciava subito a disgustarlo. Se una rivoluzione poteva parere fatta da uomini liberi desiderosi di indipendenza nazionale e amministrativa, era quella delle colonie americane contro l’Inghilterra; ebbene l’Alfieri, anche se ci si entusiasmò fino a scrivere nel 1781 l’ode per L’America libera, in fondo a questa insinua un dubbio sulla validità di quella rivoluzione. Già prima, nella seconda parte dell’ode chiedendosi retoricamente se i soccorsi che arrivano in America non siano olandesi, di quegli olandesi che

[...] in un mar di sangue

lor libertà fondaro [...]

si risponde negativamente, trovando che essi sono decaduti per cupidigia di oro, facendosi mercanti:

Che parli, stolto? esser può mai, se immersi

entro a guadagni lordi,

fatti immemori son di sé costoro

sí, che son da gran tempo a gloria sordi?

Straniere a lor già fersi

povertade, e virtú; già il ferro in oro,

ed in alga l’alloro,

e capitano invitto in signor molle [...][14]

È nella stessa ode che l’Alfieri traccia una storia della libertà, che dopo aver soggiornato in Italia sarebbe ascesa in qualche altro pianeta per poi tornare nelle isole britanniche:

O Dea verace, che le spiagge amene,

che il mar d’Ausonia bagna,

festi già sovra ogni altre un dí beate:

tu, cui piú mai non vide, e in van sen lagna,

l’Italia, che in catene

abborrite e sofferte, indi mertate,

tragge sua lunga etate:

tu, che (colpa di noi), tanti anni e tanti

del globo fuor, forse in miglior pianeta,

stanza avevi piú lieta;

quindi fra il sangue, e le discordie, e i pianti

di plebe oppressa, e i canti

degli oppressori, e gli aspri

tra’ Re pel regno tradimenti infami,

in Albión scendevi [...][15].

Ma sempre in quell’ode si può notare l’aggiunta essenziale che l’Alfieri portava alla concezione della libertà anglosassone. Mentre loda gli americani per il loro gesto di ribellione trova però che il motivo economico che ve li ha spinti è meschino (che in verità era il pretesto di ben piú esteso bisogno di indipendenza), è indegno di una lotta eroica:

Maratóna, Termópile, l’infausto

giorno di Canne stesso;

guerre eran quelle: e ria cagione il vile

lucro servil non n’era, ove indefesso,

d’avarizia inesausto,

tutti scorrendo i mar da Battro a Tile,

veglia il moderno ovile.

Pace era quella, che d’Atene in grembo,

con libertade ogni bell’arte univa;

dove a un tempo si udiva

di varie e dotte opinioni un nembo. –

Ma in questa età, che è lembo

d’ogni bell’opra estremo,

qual fia tema di canto? a chi secura

volgo mia voce, mentr’io piango e tremo? –

«Ahi, null’altro che FORZA, al mondo dura! [...][16]

Perché la guerra di liberazione degli americani non poteva misurarsi con le guerre antiche combattute per la libertà? Perché il motivo economico toglieva agli occhi dell’Alfieri ogni dignità, ogni tragicità a quella lotta. Perché, a parte la suggestione del passato che in lui era fortissima (nel ricordo del passato cadono le riserve e le antipatie personali, il fastidio delle difficoltà quotidiane, i tratti minuti dei temperamenti, e restano le grandi epoche, i personaggi eroici, la grandiosità complessiva di lotte costituite in realtà anche di piccole cose meschine), egli voleva che a quell’atto di liberazione non venisse tolto il suo carattere di perfetta purezza. La libertà diventa cosí una passione che oltrepassa la sfera politica e mantiene l’assolutezza delle esperienze fondamentali: il servaggio ha per l’Alfieri lo stesso carattere che ha il peccato per uno spirito religioso.

Sempre nella stessa ode l’antitesi della libertà e il dispotismo dà luogo ad una rappresentazione in cui, come tanto spesso nell’Alfieri meno equilibrato, espressioni torbide, faticose si alternano a lampi di una potenza non solo artistica, ma significativa per questa sua passione di libertà:

Ma, oimè! qual sorge sull’immenso piano

dell’oceàn, che parte

dall’America noi, fero possente

sovra negre ali immense all’aura sparte,

torvo Genio profano?

D’Europa ei muove, e baldanzosamente

la tempesta fremente,

che a noi salvezza e libertade apporta,

arresta ei sol, col ventilar dell’ale;

la cui possa fatale

dall’onde al ciel, da un polo all’altro insorta,

fa d’adamante porta

ad ogni aura felice,

che a noi mandasse occidentale piaggia.

Malnata Forma, oh! chi sei tu, cui lice

far che ogni nostra speme a terra caggia?

Tenebre i passi tuoi, l’alito è morte;

occhi di bragia mille;

bocche piú assai, di fere zanne armate,

da cui di sangue ognora grondan stille;

tutto orecchie, ma porte

soltanto alle parole scellerate,

da Invidia fabbricate:

adunchi, innumerabili, sanguigni,

rapaci artigli, all’accarnar sí adatti,

a disbranar sí ratti:

oh! chi se’ tu, che a rio tremor costrigni

anco i cor piú ferrigni?

E soli eletti pochi,

cui di sangue disseti, e d’oro pasci,

tremanti a tua feral mensa convochi,

e satollar del pianto altrui li lasci?

Tu se’ colui, ben ti ravviso, e indarno

cogli occhi torti cenno

minacciando mi fai, che il nome io taccia:

tu sei quel mostro rio, cui vita dienno

pingue ignoranza, e scarno

timor, che il fuoco il piú sublime agghiaccia

con sua squallida faccia.

DISPOTISMO t’appelli, e sei custode

tu solo omai di nostre infauste rive,

dove in morte si vive;

dove sol chi per te combatte è prode;

dove alla infamia è lode,

e i falsi onor sembianza

veston di sacra alta virtude antica;

dove sol presta la viltà baldanza;

dov’è sol reo quell’uom, che il vero dica.[17]

Basta ricreare, dentro quel tessuto fremente e vivo di una retorica tutta personale, brevi gridi cupi come: «dove in morte si vive», «Tenebre i passi tuoi, l’alito è morte», per misurare la sincerità della passione alfieriana.

Della libertà egli faceva anche la giustificazione civilizzatrice delle conquiste romane: non il motivo dell’espansione imperialistica, ma il desiderio di portare libertà ai popoli, per sincero amore di una forma di vita superiore. In un componimento del 1775 Annibale viene immaginato a meditare sulla grandezza di Roma, prima di scendere dalle Alpi in Italia:

Non è di patria il nome ivi chimera,

l’idol bensí, ch’ognuno incensa e cole,

il solo a cui si serve e in cui si spera.

Quivi de’ Re l’abominevol prole

e l’odioso nome insiem fu spento,

nome di cui piangendo ognun si duole.

Il cittadin colà tuttora intento

a meritar de’ cittadin le lodi

non si mostra all’oprar timido o lento.

[...]

Indi nasce lo sprezzo, e ’l fier desio

d’annichilare o d’asservir le genti

ch’hanno i dritti dell’uom posti in obblio;

sacri diritti, eppur lesi soventi

infra color, ch’usi a servire, i semi

della natia libertade han spenti.[18]

Il suo amico Paciaudi, che censurò aspramente questi versi, notava che «Nessuno aveva maggiormente posto in oblio i diritti dell’uomo che i Romani, e la stessa guerra punica ne fa non dubitabile fede»; ma tale esaltazione antistorica, di uomo abituato a pensare in termini moderni la sua ammirazione per l’energia dei romani, indica chiaramente che la libertà alfieriana voleva avere un carattere eroico, di volontà severe, catoniche, anche se aspirava ad essere un ideale ben diverso da quello imperialistico e militare romano.

E nello stesso componimento, ad una lunga tirata contro gli italiani:

Vidi una gente, che credeasi nata

solo a servir, e di servir ben degna

poiché l’antica gloria avea scordata. (vv. 64-66)

il Paciaudi notava ancora: «Questi pensieri ponno nascere in capo a chi sen vive soggetto ai Re, ma difficilmente ad un repubblicano».

E senza volerlo indicava proprio la natura della posizione alfieriana che esigeva il contrasto con una potenza ostile, contro cui ribellarsi, da cui liberarsi. Non aveva a che far nulla con la serena speculazione di un teorico che in tempi propizi cerca la miglior sistemazione del problema della libertà; egli cercava una esplosione, una liberazione che presupponeva apprensione, sofferenza, lotta.

L’Alfieri si trovava di fronte, piú che vere monarchie tiranniche, i vari dispotismi piú o meno illuminati che rappresentavano lo sforzo massimo di conciliazione tra le idee progressiste del secolo e la vita ancora rigogliosa del vecchio assolutismo, in princípi spesso sinceramente imbevuti di una cultura energica nel suo potere di volgarizzarsi e di farsi mentalità comune. E in fondo la maggior parte dei pensatori illuministi si accontentò di queste forme ibride che sembravano indurre il progresso dall’alto mediante riforme, lotta contro il potere della Chiesa, miglioramenti delle condizioni di vita e di educazione. Se ciò storicamente ebbe un grande valore, perché ammettere degli ideali rivoluzionari a metà significa in senso assoluto cedere di fronte alla loro forza intera, d’altra parte poteva sembrare la classica manovra dei potenti e dei conservatori che svirulentano un’idea, e la ammanniscono dolcificata ed innocua ingannando la massa affinché non si rivolga alla fonte genuina. L’Alfieri nel suo estremismo sentí l’equivoco che si celava anche nelle forme piú famose ed idoleggiate di tirannide illuminata e lo denunciò con il fanatismo di chi non vuole che il diavolo si trasformi in angelo, sicuro che in fondo qualcosa di nero resterà nelle sue intenzioni: «Un tale buon principe [...] potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall’uno come dall’altro ridondano?»[19].

Egli non ammetteva cioè libertà se non libera, ed anche un regno di paradiso gli sarebbe sembrato un puro appagamento di edonismo se quei beni non fossero venuti dalla libertà degli uomini. Anche di Federico II, che già tanto lo aveva infastidito con le sue pompe militari, egli dà un giudizio negativo per quanto riguarda la sua illuminata benevolenza verso letterati e filosofi:

Fuggiam, fuggiam da un Re filosofante,

rimpannucciante alcun letteratuzzo [...][20],

anche se in un sonetto posteriore gli concede:

Ma, di non nascer re forse era degno.[21]

Il tiranno deve essere tiranno, non deve sfuggire alla condanna in cui l’accesa fantasia alfieriana l’ha inquadrato. Deve essere coerente alla sua passione fondamentale che è quella di comandare e opprimere.

Se si rilegge il Panegirico di Plinio a Trajano, che al solito come gli scritti alfieriani non ispirati dalla passione di gridare la propria lotta riesce complessivamente monotono e grave, incerto tra la ricerca di una consequenzialità esteriore e intuizioni geniali e momentanee, si ritroverà ancora un complesso di esperienze e di presentimenti intorno alla libertà. La libertà diventa un misto di indipendenza aristocratica, di sobrietà catoneggiante e di vigorosi accenni ad una condizione di uomini uguali di fronte alle possibilità della grandezza, della gloria, della virtú. Non tanto, nel suo lato piú genuino e nuovo, la condizione negativa di una vita angariata, non oppressa, quanto la visione di una società in cui gli individui, se «generosi, magnanimi, interi», possono entrare in una gara di grandezza, di elevatezza. «Trajano, tu allora godrai di un bene ignoto sempre a chi impera; di un bene infinito, inesplicabile, e sommo per un core ben fatto e magnanimo; il trovar emuli nella virtú»[22], dice Plinio a Traiano quando lo ha esortato inutilmente, dopo averlo lodato per le sue qualità di equilibrato governante, a lasciar l’impero e rivendicare Roma in libertà, a ritornare semplice cittadino. L’Alfieri, che pure cosí potentemente aveva sentito e capito la voluttà del comando negli eroi tiranni delle sue tragedie, mostra di contrapporre a quella esaltazione della personalità nel senso del comando una esaltazione nuova della personalità che disprezza il comando, che non vuole né servire né opprimere, che si sbarazza della catena angusta e fatale delle cose, del rapporto ferino di padrone e servo, mediante il gusto di una vita libera in cui l’individuo possa esprimere tutte le proprie capacità. Il tiranno si rivela sempre piú per l’Alfieri come un maniaco monocorde, una sorta di mostro che dell’umanità ha solo la passione del dominare. Vero è che quando quella cupidigia raggiunge, nelle tragedie alfieriane, il suo grado supremo, il tiranno diventa degno di essere combattuto. È sí perfido, carico di ogni possibile deviazione morale, ma la forza con cui afferma se stesso e il suo impero è una forza positiva con la quale l’Alfieri inevitabilmente simpatizzava, anche aborrendola e combattendola. È un eroe malvagio, quasi la personificazione dell’energia nella sua natura piú belluina, unilateralmente umana, fuori di una vera complessità umana. L’Alfieri se l’è creato senza riferimento alla natura dei despoti del suo tempo. Era il male delle cose, non morto, ma vivificato dalla sua stessa passione dell’energia. Grandezza maniaca e malata, di fronte alla quale si erge la grandezza pura dell’uomo libero. Magnanimo, generoso, vero, ben fatto sono gli epiteti che egli dà all’uomo nato per la vita libera, come se egli vedesse nell’uomo nato a servire una bassa e ignobile eredità, un difetto vergognoso e turpe.

Al tiranno lascia ancora il riconoscimento della sua energia, ma per il servo non ha pietà né lo considera dotato di vere qualità umane. Se in lui la distinzione tra uomo libero e schiavo era cosí sostanziale, si può capire quanta importanza avesse per lui la condizione della libertà. All’individuo generoso, ben fatto poteva bastare tale sua elezione per giustificare la propria vita? Tale distinzione non era già la sua liberazione? Ma l’Alfieri non si contentava di una superiorità potenziale né amava una società di clercs che accuratamente separino le ragioni della cultura dagli impegni violenti della politica. Cosí il tema della grandezza e della naturale infelicità che vi è connessa cerca la sua spiegazione nelle condizioni politiche avverse e limita un approfondimento del pessimismo che raggiungerà le sue conclusioni ultime nel Leopardi. La grandezza non può rivelarsi a causa dei tempi morti, a causa della tirannide che impedisce ogni affermazione di valore. «Per morire io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non mai vissuti, già mi ha risposto l’oblio»[23], dice, con una intensità che supera l’intenzione politica, l’ombra del Gori Gandellini nel dialogo La Virtú sconosciuta, che fonde, nel motivo di un’amicizia cresciuta con la morte, il motivo della infelicità della vita con quello del bisogno dell’azione. «Te sfuggito e sottratto alle noje, al servire, al tremare, alla vecchiezza, alle infermità, e piú di tutto al dolore immenso e continuo di conoscere il bene ed il grande, e non poterlo né ritrovar né eseguire, te invidio bensí, ma te non compiango giammai»[24], dice l’Alfieri all’amico morto. «Ufficio e dovere d’uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire»[25]. Occorre dunque fare per liberarsi, per esprimere la passione politica in cui l’anima alfieriana si era riversata come nel piú immediato sfogo della sua ribellione. E da qui l’Alfieri avvierà la giustificazione del suo destino di poeta trovando nello scrivere un compenso del fare, là dove questo è, per ostacolo dei tempi politicamente avversi, materialmente impossibile.

Tutta la vita è dunque per l’Alfieri in funzione della libertà al cui fondo si potrebbe immaginare una base religiosa. Ma qual è quella religione che all’Alfieri possa sembrare base della libertà? Non certo quella ufficiale della Chiesa cattolica, non l’osservanza alle parole del pontefice romano contro il quale egli si esprime sempre violentemente, accomunandolo perfino ai francesi da lui odiati:

Ma, pria che il Papa, annullisi la matta

licenza atroce Gallica servile.[26]

In proposito alla religione v’è nella Tirannide un capitolo molto interessante in cui spunti storicamente giusti e sempre attuali si mescolano a delle affermazioni azzardate, sia per rispetto di una certa coerenza sofistica sia per il suo impeto di libellista. La posizione verso il papato e la Chiesa cattolica rientra nel generale atteggiamento antitirannico, con l’odio del papa in quanto re:

Il Papa è papa e re:

dèssi abborrir per tre.[27]

E re assoluto, retrogrado, come il suo Stato poteva mostrare:

Vuota insalubre regïon, che stato

ti vai nomando, aridi campi incolti;

squallidi oppressi estenüati volti

di popol rio codardo e insanguinato:

prepotente, e non libero senato

di vili astuti in lucid’ostro involti;

ricchi patrizj, e piú che ricchi, stolti;

prence, cui fa sciocchezza altrui beato:

città, non cittadini; augusti tempj,

religïon non già; leggi, che ingiuste

ogni lustro cangiar vede, ma in peggio:

chiavi, che compre un dí schiudeano agli empi

del ciel le porte, or per età vetuste:

oh! se’ tu Roma, o d’ogni vizio il seggio?[28]

Proprio il papa costituisce il punto piú attaccato dall’Alfieri nella costruzione cattolica, quando nella Tirannide parla della religione nei riguardi della libertà. Abbiamo già visto che nei riguardi di una religione positiva c’è una certa valutazione romantica, che la fa suscitatrice di entusiasmo, e una valutazione illuministica, che la considera freno contro la corruzione e semmai quale espressione particolare di un universale deismo. Ma all’Alfieri la questione religiosa interessava soprattutto per la liberazione eroica nella vita e proprio a questo proposito egli vide che la religione cristiana in genere e quella cattolica in particolare erano poco adatte per dare all’uomo quello sdegno magnanimo di ribellione, e lo invitavano invece a sottomettersi all’autorità dei tiranni. «La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per sé stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero». Semmai lodevoli erano gli eretici, i protestanti che si erano ribellati all’obbedienza passiva, non gli altri che «non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l’aveano i suoi successori trasfigurata) si chiusero essi sempre piú ogni strada al riprocrear libertà»[29]. Egli non si curava dei punti dogmatici che meno hanno riferimento alla vita vera di noi uomini, ma trovava i punti piú dannosi della religione cattolica in queste credenze ed istituzioni: «Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO, e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI». Quanto al papa, dice che «un popolo, che crede potervi essere un uomo, che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido»[30].

Era il principio autoritario che gli ripugnava, l’inumanità di una onniveggenza divina messa in un uomo fallibilissimo e di una obbedienza in ogni caso, anche se la ragione la vietasse. Le altre accuse hanno una lambiccata ricercatezza: ad esempio, dannosa è la credenza del Purgatorio perché gli uomini «Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta il lor necessario»[31]. Donde la ricchezza dei preti: e dalla loro ricchezza la loro connivenza col tiranno: e da questa doppia congiura l’oppressione degli uomini liberi. Si pensi alla figura di Leonardo sacerdote nel Filippo, o all’invettiva di Saul contro i sacerdoti. Nel sostegno dato dai sacerdoti al re assoluto, che è poi il loro braccio secolare, si riconosce la politica di alleanza con i potenti a danno di un popolo che deve veder misteriosi, lontani, sublimi i segreti della religione:

[...] il sacro vel, che al volgo

adombra il ver, ch’ei non intende, e crede: [...][32].

Tanto è il disprezzo verso il papato che anche nel periodo della Rivoluzione francese, quando egli giungeva a lodare gli austriaci che difendevano Mantova, perché avversari dei francesi, il papa veniva messo alla stessa stregua dei suoi nemici repubblicani.

Restavano semmai le religioni di carattere protestante, che avevano dimostrato di saper infiammare gli uomini anche all’amore della libertà appunto perché la loro religione era incentrata nella libertà di ognuno di comprendere Dio, di leggere la sua volontà, di eseguire la sua volontà secondo la propria coscienza.

«Doppia universal servitú» dice della Chiesa e dello Stato assoluto. E che i due poteri siano fatti l’uno per l’altro, egli lo vede nel rispetto che si dimostrano scambievolmente agli occhi del volgo: «Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il politico impero, o se l’impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio [...] ma da nessuno mai dei due udiamo chiamare, o reputare mai sacri, gl’incontestabili naturali diritti di tutte le umane società»[33].

La libertà è dunque la vita ideale degli uomini veri, la condizione e il risultato del forte sentire. Riassume la grandezza del mondo classico, non trova una realizzazione perfetta nel presente che impallidisce al paragone di una libertà eroica nata piú per atto di liberazione che in seguito a sapienti adattamenti legislativi. Chiarito il carattere della libertà alfieriana, si può meglio capire l’atteggiamento che il poeta assunse di fronte alla Rivoluzione francese. I rapporti con la Rivoluzione francese caratterizzano le varie mentalità degli italiani del secondo Settecento e indicano fin dove l’illuminismo si era fatto vitale, e dove invece elementi di una retorica anteriore venivano rinfrescati dai primi spunti di una nuova coscienza nazionale. Non c’è grande italiano di quel periodo che non abbia preso inizialmente posizione a favore della Rivoluzione e che poi non abbia reagito sfavorevolmente. Il Parini, l’Alfieri, il Cuoco. Naturalmente coloro che assistettero a tutta l’evoluzione del fenomeno da Rivoluzione ad impero poterono sentir traditi i loro ideali di libertà e di libertà nazionale e insieme vedere i vantaggi educativi anche di una parvenza di regime nazionale, ma già Parini ed Alfieri si ribellarono rapidamente contro l’applicazione dei princípi da essi amati. Nel Parini fu il cittadino offeso dai soprusi, dalle prepotenti irregolarità; nell’Alfieri fu anche quello, ma piú l’uomo nuovo e l’individuo indipendente che non tollerarono le limitazioni e lo spirito razionalistico della Rivoluzione. Indubbiamente, se in tutti i casi vi poté essere impazienza di persone non avvezze e non adatte alla politica, il riferimento alla libertà offesa era ugualmente se pur variamente giustificato.

C’era una tradizione di gelosia e di suscettibilità da parte dei letterati italiani verso i francesi, poco riguardosi della gloria delle nostre lettere, e proprio nella prima metà del secolo si era accesa una polemica per un libro del gesuita Bouhours che conteneva un giudizio pienamente negativo della letteratura italiana. Tra i letterati piú tradizionalisti si sviluppò una corrente gallofoba, mentre i progressisti illuministici trovavano nella cultura francese un aiuto nel loro sforzo di europeizzarsi. La Francia era per questi ultimi l’Europa, mentre per gli altri era la nazione che sembrava con la sua presuntuosa modernità calpestare la grandezza italiana. Cosí l’Alfieri trovava già una eredità antifrancese che si arricchí in lui man mano che l’esperienza di una certa frivolezza francese trovava conferma nella sua antipatia per il facile e gelido sorriso degli enciclopedisti francesi. Al contrario dei popoli schiavi, ma ricchi di qualità naturali, di sentimento istintivo e vigoroso, il popolo francese gli era sembrato fatto di servi contenti o schernenti, ma non di veri uomini. La sua serietà crucciata ed inamena odiava quanto di frizzante, di razionalistico v’era nella natura francese.

Un discorso del metodo tradotto in termini illuministici non poteva assolutamente suscitargli simpatia. La Rivoluzione francese lo indisponeva dunque anche come risultato della filosofia illuministica, che, umanitaria e tollerante in teoria, produceva un movimento sanguinario e intransigente. Cosí, ironicamente paragona la strage degli Ugonotti nella notte di S. Bartolomeo alle uccisioni del 10 agosto e del 2 settembre del 1792, e nota che almeno in quei tempi di tenebre nessun principio affermato filosoficamente vietava quella strage:

In altro Agosto insaguinar già vide

l’onde sue l’empia Senna: ma quello era

delle tenebre il secolo, cui fera

religïosa crudeltà conquide.

D’ogni ornicciuòl maestra, oggi si asside

filosofia dolcissima, che impera

di tutte Sette tolleranza intera,

e le passate immanità deride.[34]

Il che mostra anche meglio il disprezzo che l’Alfieri aveva per la divulgazione delle idee illuministiche, per i «filosofi scalzi» che godevano nell’aizzare la «ciurmaglia».

Tuttavia, quando scoppiò la Rivoluzione, l’Alfieri ne provò gioia e fiducia, fu pronto a cantare Parigi sbastigliato e resistette nella sua simpatia anche quando eran già scoppiati i primi episodi del Terrore. Alla pia madre, che lo scongiurava di tornare via dalla Francia dove si svolgevano eccessi insopportabili agli occhi di una aristocratica e di una fervente cattolica, rispondeva giustificando la necessaria violenza da cui sarebbe sorto un bene: «sono mali passaggeri, da cui ne potrà forse ridondare un bene durevole»[35]. In Parigi sbastigliato l’Alfieri mostra chiaramente già le ragioni per cui non doveva rimanere a lungo entusiasta della Rivoluzione. Anzitutto va ricordato che, con il suo amore per l’azione individuale o di pochi individui generosi, contrastava il movimento delle masse, della plebe, che gli doveva sembrare una contaminazione di quel gesto di suprema elezione. Ciò che poi egli si attendeva era una monarchia costituzionale o anche una repubblica moderata e che consacrasse la distinzione delle vecchie classi sociali collaboranti, ma con le loro prerogative:

Popol, Patrizj, Sacerdoti, è questa

la via, per cui quel sacro allor si miete,

che il ben d’ogni uom nel ben di tutti innesta.[36]

Ecco che, quando la Rivoluzione ebbe superato il primo periodo piú generico e si costituí rivoluzione della borghesia, l’Alfieri doveva per forza trovarsi disgustato. Che egli volesse solo delle riforme in senso costituzionale e al massimo una repubblica senza giacobinismi, ce lo attesta una lettera mai spedita, ma preparata da lui per Luigi XVI, per consigliarlo a cedere quello che la forza rivoluzionaria gli avrebbe strappato: non la corona, ma le prerogative piú avvilenti per i cittadini:

«Non sono nato vostro suddito [traduciamo dalla lettera scritta in francese]; il mio nome che vostra maestà ignora, ma che è in fondo alla lettera, come il cattivo francese che io scrivo, vi dicono chiaramente che io sono italiano. Io sono nato nobile in un piccolo paese che si chiama Piemonte. Io l’ho lasciato, ma senza colpa, da circa dodici anni, unicamente per poter pensare e scrivere liberamente. Io non cerco, Sire, né di piacervi, né di dispiacervi; io non voglio niente né da voi né da chicchessia. Io amo gli uomini, la verità, la gloria e la giusta libertà. Tutta questa lunga tirata che vi faccio sul mio conto, era necessaria per spiegarvi a qual titolo io osassi scrivervi queste poche righe che seguono. Ho tentato, in una breve prosa italiana, sotto il nome di Plinio, di consigliare a Traiano, morto, di rinunciare all’impero e di far rivivere la repubblica romana. Oso pregare Luigi XVI, vivente, di un sacrificio molto meno grande, cioè di cogliere l’occasione che si presenta per acquistare la gloria piú singolare, piú vera e durevole a cui qualsiasi uomo possa arrivare: è di andare voi stesso oltre ciò che il popolo vi chiederà per la giusta libertà; di distruggere da voi per primo l’odioso dispotismo che è stato esercitato sotto vostro nome; di prendere con il popolo delle misure immancabili per impedirne la resurrezione per sempre e di crearvi, mediante la spontaneità di un nobile e imperioso provvedimento, un nome che nessun re ebbe od avrà mai. La semplice vista del manoscritto che, in un tempo in cui tutto si stampa, io impiego per farvi pervenire, Sire, il voto disinteressato del mio cuore per un bene che non mi riguarda in alcun modo, vi è garante che non è la mia piccola gloriola che cerco di soddisfare, osandovi dare un tale consiglio, ma la vostra e il benessere di tutto il vostro popolo»[37]. La reggia è ancora nido di tradimento e di viltà, ma basterà che il Terrore commetta soprusi, violenze ingiuste e che la nobiltà venga battuta per far cadere la retorica del tiranno e della reggia e farvi sostituire quella della Francia, considerata predona e conculcatrice degli uomini liberi.

La delusione era dunque inevitabile e si preparava da tempo: né si fa storia di pettegolezzi quando si aggiunge che i fastidi causati all’Alfieri dallo stato delle cose a Parigi, e soprattutto la drammatica partenza all’inizio del Terrore, influirono non poco sul nostro autore, che voleva che la libertà cominciasse da lui, dalla sua indipendenza, e che trovava un intollerabile sopruso la limitazione della cara libertà di movimento (a volte l’amore della libertà è soprattutto amore della sua libertà, del suo libero andare in giro per il mondo: «[Voglio] esser libero di stabilirmi anche in America se mi piacesse; ed a questa idea sappiate che son risolutissimo di sagrificare non che i beni di Fortuna, in parte come ho fatto, ma la stessa vita», scriveva nel ’78[38]). Il motivo della sua nobiltà, che da giovane aveva lodato per poterlo disprezzare, negli ultimi anni riaffiorò in contrapposto con il regime popolare borghese e assunse un carattere difficilmente spiegabile in funzione della personalità.

Era proprio che il vecchio nobile ritornava fuori e godeva istintivamente della sua distinzione naturale. «Non ho mai né amata, né stimata la nobiltà del sangue quanto da che son convinto dai fatti, ch’ella è un ottimo distintivo per farsi conoscere diversi realmente dagli altri»[39], scriveva nel ’96. Non era piú dunque solo perché i nobili erano per forza di cose «meno schiavi» degli altri che l’Alfieri si ricordava con orgoglio della sua nascita, ma per un moto del sangue superbo e per una volontà di distinzione che nei tempi del dispotismo monarchico era piú facilmente realizzata da un certo disprezzo della nobiltà stessa.

Anche la privazione dei suoi libri e dei suoi oggetti, e di danari, a causa della Rivoluzione, crucciava moltissimo l’Alfieri che non mostrava affatto di voler nascondere questo motivo personale e anzi ne faceva l’esempio esperimentato della mancanza di ogni rispetto della libertà individuale, che per lui comprendeva la proprietà privata, come possesso che rientra nel raggio d’azione della personalità, da parte del regime repubblicano francese. Da quel momento la sua critica diventa aperta e intransigente, quasi settaria se l’Alfieri non avesse nobilmente fatto parte per se stesso, lontano da contatti precisi con le forze reazionarie.

Spirito violento e facile a reagire per contrapposizione alla realtà brutta perché limite ad un suo sogno eroico, egli che aveva visto fino allora il suo nemico sulla tirannide e nella persona del tiranno, ora lo vede nella Francia e nella sua Rivoluzione. Mentre aveva chiesto a certi regimi liberi una maggiore intensità di vita che giustificasse il loro benessere, ora ricerca in una esplosione di violenza un ordine, una regolarità, un agio impossibili.

Si prestava a questa sua apparente contraddizione tra amore alla libertà e odio di una rivoluzione libertaria il giudizio sui francesi, sulla loro leggerezza, sul loro non essere «veri uomini» e quindi inadatti a vera vita libera. Cosí egli giudicò gli eccessi del Terrore non piú come aveva fatto in principio, inevitabile violenza che accompagna i grandi cambiamenti, violenza indispensabile ad una vera rivoluzione, ma come effetto di una rivolta di schiavi che non sanno organizzare una società poiché mancano del senso stesso della libertà. È dell’88 il parere sull’Agide in cui dice la sua speranza che in Italia, dove «la pianta uomo [...] essendovi assai piú robusta che altrove, quando ella venga a rigermogliare virtú e libertà, la spingerà certamente [...] assai piú oltre che i nostri presenti eroi boreali, fra cui la libertà si è piuttosto andata a nascondere, che non a mostrarsi in tutto il suo nobile immenso e sublime splendore»[40].

La libertà richiedeva insomma una generosità eroica romana e spartana e un senso di garanzia, di rispetto dei diritti altrui che non trovava nella Rivoluzione francese e nei francesi:

O Dea, tu figlia di valor, che aggiungi

due gran contrarj, Indipendenza e Leggi;

tu, che da’ miei primi anni il cor mi pungi,

e mia vita e’ miei studi arbitra reggi;

tu, di Giustizia suora, or ten disgiungi?

Religïon, già base tua, dileggi?

Lagrime ed auro da ogni tetto emungi?

E tempio infetto infra vil gente eleggi?

Ah! no; la Diva mia, del Tebro Diva,

del Tamigi, e di Sparta, ai Galli ignota,

mai non volò su questa infausta riva.

Licenza, è questa; alla lisciata gota,

ben la ravviso; e, d’ogni pudor priva,

volger si affretta la sua breve ruota.[41]

Tutto gli divenne odioso e perfino il nome della libertà gli sembrò logorato e corrotto dall’uso che la Rivoluzione ne fece. E si gettò contro quella, secondo lui, nuova tirannide con la stessa passionalità con cui si era gettato prima contro il dispotismo. Ma la sua maturità, colpita da questo cambiamento, portava se non la caduta della passione fondamentale, certo la perdita della ispirazione piú genuina e piú pura, e la nuova lotta prendeva un carattere piú aspro, piú animoso, piú puntiglioso. Nasce in lui il bisogno della satira, dello scherno, mentre prima era stato tutta pura affermazione tragica. L’ideale per cui aveva lottato era affermato da altri ed egli veniva, pur senza volerlo, a trovarsi accanto a quelle correnti reazionarie che sognavano il ritorno dell’assolutismo, contro cui era nata la sua passione politica. E certo è grave che egli ignorasse che gli uomini della repubblica partenopea morivano per quella libertà che le bande dei lazzeri, di quella plebe da lui glorificata come segno della vitalità italiana, venivano a calpestare. Quando si sia bene accertato il tono meno puro di questa nuova lotta, il suo minor valore come base di una possibile creazione artistica, si deve però valutare giustamente l’importanza dei motivi che ne scaturivano. Tutto il Dialogo fra un Uomo libero ed un Liberto, che si trova nel Misogallo, potrebbe essere citato per chiarire ancor meglio la distinzione posta dall’Alfieri tra la libertà e la Rivoluzione francese. Un americano del nord parla con un avvocato francese. L’americano, arrivato di recente in Francia, non vede i portati meravigliosi della libertà che l’altro gli vanta, anzi confessa di aver creduto di essere giunto in un paese dominato da un re impazzito. Ribatte il Liberto: «Oh stolto! e non vedevi tu nei volti tutti dei nostri cittadini la indipendenza e la libertà? non ne udivi tu ad ogni passo eccheggiare i bei nomi tra le feroci grida del popolo?». E il Libero: «Io scorgeva nei volti di tutti insolenza moltissima; ed una risibile ferocia negli urli, ferivami; ma, né un solo contegno di liber’uomo vedendo, io queste cose tutte a voi le credeva cosí comandate da un Re». Liberto: «Tu mi sai d’imbecille davvero. Un Re, lascia egli mai pronunziare neppure il semplice nome di libertà?». Libero: «Ma un Popolo libero, è egli mai insolente, sanguinario, ed ingiusto?»[42].

La libertà dunque non sta nel parlarne, ma nell’applicarla nel riguardo assoluto dell’individualità altrui, e dove c’è libertà non c’è luogo per il gusto malvagio del sangue. E d’altra parte l’Alfieri nella Rivoluzione francese non vide quei gesti eroici o individuali con cui l’uomo generoso si libera del tiranno. Non volle vedere il tragico di Danton, di Robespierre e degli altri che lottavano per le loro idee a prezzo della testa. Gli sembrò un trionfo di plebei e di avvocati, e al disprezzo dell’uomo libero per ogni sopruso e limitazione dell’individuo si aggiunse certamente lo sdegno dell’aristocratico che, con un residuo di repulsione feudale ad ogni lavoro, accomuna i plebei e i professionisti borghesi.

La Rivoluzione francese diventava cosí il punto di divisione delle sue convinzioni politiche. Di fronte alla Rivoluzione e all’invasione francese gli italiani migliori provarono un naturale imbarazzo tra il loro nazionalismo, ancora vago e generico e ancora attaccato ad una tradizione letteraria e retorica, e l’altezza delle idee che bene o male venivano introdotte con gli eserciti repubblicani. Vi furono quelli che incondizionatamente aderirono e quelli che sperarono nella reale autonomia dei nuovi stati creati in Italia. Alcuni eredi del concetto cosmopolitico dell’illuminismo sentirono che le idee valgono piú della patria, altri si infastidirono dell’imposizione e soprattutto dell’adesione servile di molti italiani che tra le nuove e le vecchie invasioni non facevano differenza nessuna, pronti ad acclamare ogni nuovo venuto, a cambiare non le idee, ma i padroni. Ma l’Alfieri visse questo dramma, oltre che con tutti i limiti accennati, con un elemento nuovo che praticamente doveva maturare in alcuni spiriti proprio nel contrasto ad un invasore che offriva da sé l’arma ideale della rivolta proclamando la libertà e il diritto di vivere secondo il proprio volere. L’Alfieri sentí la passione nazionale prima ancora che esistesse una coscienza nazionale negli italiani, sentí con vivacità di presente un suo sogno eroico che presupponeva una nazione italiana non ancora esistente. Questo nazionalismo, che si deve naturalmente ben distinguere dalle teorie nazionalistiche di un secolo dopo, nasceva dal suo sforzo di distinguere un popolo vigoroso e veramente corrispondente al suo sogno di libertà da quello francese.

Dall’odio nasceva la coscienza di una nazione ancora potenziale, ma potenzialmente capace di esistere e di lottare contro l’idolo polemico del poeta. Cosí il famoso sonetto «Giorno verrà» ecc., è soprattutto l’assicurazione di una nascita della nazione italiana e perciò anche il Misogallo, costruzione debole e libellistica, modello di un genere di xenofobia che nasce da umori e mai da cultura vissuta profondamente, ha per noi il valore di un’affermazione di questa nuova, augurata nazione italiana. Come documento antifrancese o antirivoluzionario ha scarsissimo valore, ma indica una coscienza che nega per affermare, che critica volendo opporre delle qualità nuove, un senso nuovo di nazione superiore a quello della tradizione retorica che non conosceva futuro e non proponeva nessuna lotta. Ché invece era una lotta che l’Alfieri proponeva agli italiani, contro i francesi come contro ogni popolo che vietasse la nostra libertà; e come letterato cercò di iniziarla col Misogallo. La stessa aria di complotto, con cui l’Alfieri mise in giro le copie della sua operetta, indica l’intenzione di battaglia che le attribuiva: «nella gran Causa che pende purtroppo fra il Retto e l’Iniquo, degli Indifferenti non ve ne può mai esser nessuno»[43]. E quest’ultima frase vigorosa ed eterna (e ciò che era ingiusto nel ’96 poteva diventar giusto nel 1813 da parte dei popoli oppressi da Napoleone) fa sentire che la lotta da lui sognata era piú che una reazione alla Rivoluzione francese; e che, se egli veniva incoscientemente a porsi vicino ai peggiori reazionari, egli trovava i suoi veri compagni in un’epoca allora futura: negli uomini del Risorgimento. Perché tra i motivi della sua avversione alla Rivoluzione francese c’era il suo sentimento nuovo, romantico contro un fenomeno nato dall’illuminismo. Anche nella descrizione del Rame allegorico che doveva rappresentare la confusione della repubblica francese, il versicolo finale, per dare la pennellata decisiva al quadro della insolenza e bassezza dei repubblicani, li chiama «Regj stromenti», schiavi del potere regio anche se combattevano contro i re. Non era dunque diventato un partigiano dei re, ché anzi si serviva sempre delle vecchie formule di disprezzo per colpire i nuovi avversari. Non si appellava come i polemisti della reazione ad un ordine voluto dal Dio dei privilegiati, ma metteva i rivoluzionari sullo stesso piano dei vecchi nemici. E solo da una collera cieca contro le vittorie dei francesi poteva essere spinto a rinnegare, se non le sue idee, la loro utilità: «io approvo [scrive nel 1802 all’abate di Caluso a proposito dei libri giovanili politici, ristampati contro la sua volontà] di bel nuovo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti, ed i libri medesimi, perché non c’era il bisogno che ci fossero; e il danno può essere maggiore assai dell’utile»[44].

Se ci ricordiamo di quanto l’Alfieri disse precedentemente della libertà e leggiamo quanto ne scrive nel Misogallo per corroborare la sua avversione contro i Francesi («vendetta della contaminata e tradita libertà»), vediamo che all’autore si poneva, sia pure in termini non scientifici, un problema di schietta natura politica, di costituzione dello Stato, dei rapporti tra cittadino e Stato: «Nella vera civil libertà, la storia di quei pochissimi popoli che la possedevano, mi vi facea chiaramente vedere compresa la massima possibilità per l’uomo di ottenere una piú utile e piú durevole gloria; di piú ampiamente sviluppare le proprie intellettuali facoltà; di vedersi tuttora intorno degli uomini veri, e piú felici, e piú arditi, e migliori; di avere degli emuli in tutte le virtú: né mai finirei, se qui ad uno ad uno annoverare volessi i beni moltissimi, che dalla libertà ne ridondano, bene intendendo il significato di essa; e qual dovrebb’essere intesa da tutti, se il di lei sacrosanto nome contaminato mai non venisse dalla impura bocca dei corrotti inverecondi liberti. Che a ben parlare di libertà, fa d’uopo esser liberi d’animo, e puri, e giusti, e magnanimi; altrimenti ella si scambia con l’invidia, con la licenza, e con la servile vendetta»[45]. Le qualità positive permangono e assicurano che l’Alfieri non tradí mai in profondo il suo primo ideale, ma affiorano delle determinazioni che prima mancavano: «vera libertà», «bene intendendo il significato di essa», ecc.: all’amante della libertà ad ogni costo si veniva cioè sostituendo un piú prudente pensatore politico che dalla lezione della realtà voleva trarre una formula, una soluzione completa, applicabile o per lo meno che conciliasse anche teoricamente il suo nativo bisogno di libertà con la salvaguardia di certe condizioni di vita che la libertà non ulteriormente determinata sembrava trascurare. Il problema di ogni liberale nei momenti delle crisi e degli eccessi rivoluzionari è stato sempre la ricerca di una certa regola che salvaguardi la stessa libertà da chi ne può usare a sproposito e contro essa stessa: libertà sí ma non libertà di opprimere gli altri, di uccidere la libertà. L’Alfieri, mosso è vero anche da ragioni meno pure e da una serie di condizioni piú contingenti (le ripartizioni in classi, ecc.), sentí il bisogno di cercare una determinazione della libertà, aiutato da quell’esempio di licenza che egli vedeva nella Rivoluzione francese. Cosí venne, nell’ultimo periodo della sua attività e soprattutto nelle quattro commedie di argomento politico, proponendo una forma di libertà condizionata, soddisfacente per le sue esigenze di ribelle al massimo tentativo rivoluzionario che aveva davanti agli occhi. Mancando di una preparazione storica come poteva avere un Cuoco, egli procedette attraverso prove dalle diverse forme di governo tradizionali: monarchia, aristocrazia, democrazia, arrivando ad una forma di monarchia costituzionale che, riscoprendo l’uovo di Colombo, aveva però il merito di riproporsi il problema sia pure rozzamente ex novo da una intuizione della libertà fantastica e assoluta. E certo le forme di costituzioni richieste dopo la caduta di Napoleone non differivano molto da questa elaborazione alfieriana, anche se da essa del tutto indipendenti. Alla base di questa garanzia della libertà di contro alle insolenze della parte popolare c’è un disgusto aristocratico della povertà, dei nullatenenti, della plebe ignorante, priva di ogni cosa che dia stabilità alla sua vita, pronta a sostenere il tiranno che la nutrisca o comunque a seguire chi piú le promette. Perché dunque, in questo ultimo tentativo di una sistemazione del rapporto tra gli individui e lo Stato e tra le classi, vengono a confluire oltre l’esperienza piú viva della Rivoluzione vecchi motivi che non mancarono anche nella piú accesa adorazione della libertà. Il disprezzo per la plebe nasceva in lui da quel forte residuo di aristocratico che veniva convalidato dal bisogno di distinguersi anche nella vita esteriore, di primeggiare, di essere assolutamente indipendente. Non era attaccato da nessuna forma di filantropismo, che l’Alfieri aborriva come prodotto illuministico e demagogico, e cresceva sempre piú in lui la convinzione che quell’elemento fluttuante, irrequieto, avido, privo di idee proprie e di interessi, era una terribile arma per chiunque volesse ergersi contro le leggi; e che se uno lo avesse adoperato ai fini della libertà avrebbe poi subito dopo dovuto o cedere di fronte al disordine o reprimerlo tirannicamente.

Chiuso a qualsiasi motivo cristiano, egli non si prospettò d’altra parte neppure il problema che quella massa potesse venire educata, sollevata dalla condizione di servire ai tiranni, ai demagoghi. E non ci si meraviglia di ciò quando si pensa che anche nel Risorgimento, cui partecipavano anche uomini del popolo, quasi mai si pose un vero problema sociale, che nacque soprattutto dall’opposizione Bakunin-Mazzini alla fine del grande periodo; e che la stessa Rivoluzione francese fu una rivoluzione strettamente borghese e che il terzo stato era appunto la borghesia.

Già nella Tirannide c’è una definizione del «popolo» che esclude ogni attenzione alla parte dei poveri, dei proletari. Per popolo «non intendo mai altro che quella massa di cittadini e contadini piú o meno agiati, che posseggono proprj lor fondi o arte, e che hanno e moglie e figli e parenti: non mai quella piú numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di nulla-tenenti della infima plebe. Costoro, essendo avvezzi di vivere alla giornata; e ogni qualunque governo essendo loro indifferente, poiché non hanno che perdere; ed essendo, massimamente nelle città, corrottissimi e scostumati; ogni qualunque governo, perfino la schietta Democrazia, non dee né può usar loro altro rispetto, che di non li lasciar mai mancare né di pane, né di giustizia, né di paura»[46].

Parte negativa della popolazione che rende difficile ogni vera rivoluzione e rende tanto piú necessaria una libertà forte e vigilante: «la nascente libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s’impinguavano della tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco l’apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che dai quei soli pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei piú; ov’essa per qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l’occasione di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti rei che cittadini ridivenir piú non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o guastarne»[47].

Egli fa come un primo passo verso una soluzione di autogoverno che presuppone una coscienza in tutti i componenti dello Stato, libera dalla condizione di inconsci, di servi, alcuni uomini che egli chiama «popolo», la parte dei possidenti e degli artigiani, e delle classi piú colte. Lascia allo stato di sudditi, di protetti i nullatenenti, i quali anch’essi avevano pure «moglie e figli e parenti», ma il cui nucleo familiare non era un nucleo economico. Nell’Alfieri dunque spregiatore delle ricchezze, la proprietà privata costituiva il sine qua non della personalità libera. Solo nell’Agide, tratto dall’ammirazione per una forma di governo eroica come quella spartana, egli accenna ad un diritto della plebe di partecipare alle ricchezze per partecipare cosí alla vita libera dello Stato.

Agide, accusato dagli efori e dall’altro re Leonida di voler sovvertire lo Stato eccitando

la ribellante compra infima plebe,

si difende adducendo le antiche leggi di Licurgo che egli aveva ripristinato:

Allora spenti

eran gl’iniqui crediti; comuni

feansi allor le ricchezze; allora in bando

uscian di Sparta il lusso, e i vizj insieme,

e il torpid’ozio: e risorgeano, in somma,

virtude allora, e libertade.

e dice che se non si addiverrà ad un’equa distribuzione delle ricchezze

[...] la plebe, a voi sí vile

perché mendíca, la spartana plebe,

che abborre voi ricchi possenti e forti

piú delle leggi, è molta; aspra la stringe

necessità feroce. Ove a voi giovi

rimembrar, che di Sparta e di Licurgo

figli son essi al par di voi, ben ponno

splendor di Sparta esser costoro ancora,

e in un, di voi salvezza.[48]

In quel caso la plebe sosteneva il giusto Agide e l’accusa di demagogia veniva dai personaggi meno nobili della tragedia; ma questo episodio resta isolato e si collega alla caratterizzazione di Agide e del regime spartano, in cui del resto schiavi e stranieri eran tenuti a lavorare per la razza eletta. Le dichiarazioni della Tirannide sono precise e gli eventi della Rivoluzione le confermano e approfondiscono: la plebe ha soprattutto il torto di essere di fatto piú serva, di aver l’animo piú servile, di dover per forza dipendere dai potenti che possono sfamarla ed affamarla. C’era il disprezzo dell’aristocratico in cui fermenta il disprezzo del pessimista, ma c’era anche la paura del liberale che vedeva compromessa la libertà da parte di una moltitudine che non poteva resistere alle lusinghe o alle minacce dei tiranni.

Del Popol piaga, e non del Popol parte,

la Plebe ell’è; che vizïosa, ignuda,

tremante serva e servilmente cruda,

le corrotte cittadi ingombra e parte.

Fera, volubil, stupida, in altr’arte,

che bramar tutto e nulla oprar, non suda:

sempre anelante, ch’argine si schiuda

onde inondando possa ella ingojarte.

Popolo siam noi soli, a cui l’artiglio

d’immondi bruti la Ragion troncava;

noi, fatti dotti dal comun periglio. –

A freno, a fren, la insana greggia ignava:

pane, e Giustizia, e inesorabil ciglio,

in uom la cangi; o la perpetui schiava.[49]

Scriveva nel 1794, indicando nell’ultimo verso un vago intento di educazione della plebe, il cui risultato è però indifferente, contando per lui solo quelli che sono già uomini e indicando che popolo è per lui una élite di uomini per tradizione e cultura umani.

Può sembrare allora che egli accenni non solo a coloro che possiedono (il criterio del censo che prevarrà ad esempio nel regime borghese di Luigi Filippo), ma piú a coloro che sono aperti alla cultura, alla civiltà, cioè alla borghesia intellettuale che veniva affermando di diritto quel predominio che già aveva di fatto.

Ma nei riguardi della borghesia intellettuale l’Alfieri ostentò sempre un disprezzo di nobile sdegnoso dei vili meccanici, e in piú vide in loro i mestatori, i demagoghi, gli istigatori della plebaglia, avvocati, medici, gente avida di successo e di denaro. Dato questo giudizio incerto delle classi sociali ci si aspetterebbe una sorta di rinnegamento assoluto di ogni sistemazione statale, quasi della politica stessa che non sia un atteggiamento di indipendenza individuale. Ed a questo nella sua vita indubbiamente egli tese e a questo arrivò, come anche gli episodi piú eccessivi del suo diniego a concedere ai potenti ci dimostrano.

Ma d’altra parte egli non voleva negarsi il sogno di uno Stato virtuoso, ideale, e mentre trovava la nazione adatta a ciò in quella italiana ventura, cercava di elaborare un tipo di governo che tenesse invece conto delle situazioni attuali della società. Uno Stato che contrapponendosi alle monarchie assolute del passato e alla repubblica della Rivoluzione francese, si mostrasse però attuabile, equilibrato. Il suo ideale puro restava la forma repubblicana sul tipo spartano o romano e questa sognava per un nuovo popolo italiano libero ed eroico, lontano dalle piccolezze e dai contrasti che egli vedeva nella vita politica del tempo. Ma intanto un bisogno di chiarirsi il contrasto tra libertà e libertà francese lo induceva a cercare un esempio di governo in cui la libertà non fosse licenza e rispettasse la vita di tutte le classi. Il suo ideale è chiaramente espresso in un sonetto del 1792:

È Republica il suolo, ove divine

leggi son base a umane leggi e scudo;

ove null’uomo impunemente crudo

all’uom può farsi, e ognuno ha il suo confine:

ove non è chi mi sgomenti, o inchine;

ov’io ’l cuore e la mente appien dischiudo;

ov’io di ricco non son fatto ignudo;

ove a ciascuno il ben di tutti è fine.

È Republica il suolo, ove illibati

costumi han forza, e il giusto sol primeggia,

né i tristi van del pianto altrui beati.[50]

Ma in concreto volle veder meglio il rapporto tra l’individuo e lo Stato, o meglio tra le varie classi e lo Stato. Si accinse cosí nel 1800 (cioè alla fine dalla sua vita e dopo ogni altra opera importante) alle quattro commedie politiche che, nulle dal lato artistico, rappresentano una strana vita sofistica di quattro tesi politiche.

Un toscanismo ricercato di riboboli e la ricerca lambiccata di uno humour anche indipendente dall’intento politico creavano un’aria triste cosí diversa da quella del grande Alfieri teso a gridare passioni e fremiti di smisurata grandezza. Quella forza iniziale costretta a farsi forza satirica ed umoristica mostra il serio limite di gusto, la barbarie di un ragionare che vorrebbe sollevarsi con un successo di comicità. Sono la faccia stanca e acida dell’Alfieri, privo ormai della purezza degli anni giovanili: sincero ancora, veemente anche, ma aggravato dagli umori non piú indirizzati a bruciarsi in passione.

Nella prima, L’Uno, Dario, Megabize, Orcane discutono la forma di governo da dare alla Persia mentre la moglie di Dario, d’accordo col grande sacerdote e mercè l’astuzia di uno stalliere, riesce a fare eleggere il marito. È il nitrito astutamente provocato di un cavallo sapiente che determina la sua vittoria. Vorrebbe dunque porre in ridicolo gli imbrogli con cui i re vengono scelti. Mentre nella seconda, I Pochi, i Gracchi vengono resi aspiranti al governo di Roma mediante la loro politica demagogica e falliscono proprio per la mutabilità della plebe in cui fidavano. E qui vorrebbe satireggiare il governo delle oligarchie, ma in realtà il motivo piú vivo è la presentazione dei Gracchi come demagoghi sciocchi e ambiziosi e la punta è soprattutto contro ogni partecipazione del popolino alle cose pubbliche. E tale è anche il motivo dei Troppi, in cui Demostene va insieme ad altri nove oratori ateniesi da Alessandro Magno e dopo aver inizialmente fatto lo sdegnoso come rappresentante della libera Atene scende alle maggiori bassezze per ingraziarsi il tiranno. Sono gli avvocati, gli oratori che tanta parte ebbero nella Rivoluzione francese, quelli cui l’Alfieri pensava nel comporre questa commedia, che è certo la piú fusa ed almeno ricca di spunti epigrammatici.

Ciò che dunque stava piú a cuore all’Alfieri era la lotta contro ogni forma demagogica, e perciò la commedia L’Antidoto finisce col riconoscere al popolo basso una parte di spettatore e di puro produttore nella vita dello Stato. Pigliatutto è padrone di una rete che nell’isola barbarica dove la favola si svolge è l’unico mezzo per prendere pesci e procacciarsi da vivere. Ma i Pigliapoco, i nobili, ne sono invidiosi, mentre egli, il re, si appoggia sui Guastatutto, i plebei ignoranti, mutevoli, sciocchi. Dovendo partorire Piglianchella, moglie di Pigliatutto, i nobili, con l’aiuto del mago Pigliarello, rappresentante il clero, combinano uno strano incantesimo per cui essa non potrà partorire e il re si troverà senza eredi. Ma sopraggiunge un mago orientale, sfata l’incantesimo e fa partorire alla donna una ragazza già matura che viene a simboleggiare l’Antidoto o contravveleno che guarisce dalle tre forme: aristocratica, tirannica, democratica, ognuna di per sé difettosa. La ragazza appena nata pronuncia un discorsetto a tutti gli isolani:

Farvi or prometto LIBERI [...].

Finor, voi tutti, l’un l’altro adastiandovi,

tutto poneste in iscompiglio: esposti

voi sempre al rischio manifesto,

d’esser voi preda di chi primo in armi

qui approdasse: vissuti oscuri e barbari

in questa vostra povera e discorde

isoletta: finora, ecco quai siete.

Ciascun di voi (ben ne fa fede il nome

che v’è toccato a dritto), ognun di voi

per se stesso è un veleno: ma, ben fosti

savio tu assai, mio Genitor, che a patto

niun mai volesti infra i tre Mostri scerre.

Ciascun d’essi, da sé, stato ognor fora

un orribil malanno: ma frammisti,

immedesmati l’un nell’altro, essi hanno

or procreato me. Voi dunque omai,

vostre tre classi immedesmando

[...]

Voi tutti, or sí, voi l’un coll’altro misti

stritolati, stacciati, e rimpastati

di mia man con gran cura, già già state

voi per farvi un ANTIDOTO divino

contro que’ vizj e sudiciumi stessi,

ch’eran già vostra essenza. – Ai Guastatutto,

come sprovvisti e poveri, abbian l’uso

della rete

[...]

L’uso soltanto: ma il saperla poi

fabbricar, rattoppare, custodire,

spetta ciò solo ai Pigliapoco...

[...]

A segno

non mai però, ch’arbitri voi tenervi

della rete possiate: arbitro solo

n’è Pigliatutto: ei l’inventava: ei resta

sopra di voi tutti; né mai rete alcuna

pescar potrà neppure un centinbocca,

se Pigliatutto e i figli dei suoi figli

non l’han contrassegnata, validata,

prefisso e il dove e il come e il quanto, e il quando

slanciar nell’acque debbasi.

Ma se Pigliatutto vorrà arbitrariamente negare la rete o concederla a una sola delle due classi:

Allor, te la torrebber tutti;

e voi la pena del capriccio vostro

ricevereste giusta.

Quando poi tutti hanno giurato di mantenersi fedeli a quel patto, la mancata richiesta del suo nome, dice:

In fin che saggi

sarete voi, di possedermi soli

voi paghi appien, non m’imporrete nome.

Ma, se Opulenza e la fatal sua figlia,

Insolenza, vi fanno ebri d’entrambe,

me nomerete allora Libertà:

stolti, ch’io allor con voi non son già piú.[51]

In questa commedia, che secondo le prime intenzioni dell’autore si doveva chiamare «La Magnacarta» e la cui scena doveva essere l’Inghilterra, una monarchia costituzionale in cui le leggi avrebbero dovuto essere tutelate dai nobili e usate a favore del popolo, la originaria repubblica alfieriana scendeva ad una precisazione ormai molto lontana dalla prima eroica intuizione della libertà.

Si pensi però che gli uomini del Risorgimento, anche se molti sognavano una forma costituzionale assai simile, mentre ignoravano l’Antidoto, si ricordavano della parola «libertà» come era rinnovata nell’affermazione alfieriana e mostravano che proprio per quella nella sua accezione piú indiscriminata e piú pura, nel suo senso piú religioso, prima di concrete forme di governo, valeva combattere e morire. Non quei versi finali dell’Antidoto, che pure rispecchiano fedelmente il pensiero politico dell’Alfieri nella sua estrema elaborazione, danno a noi la misura della sua forza di liberazione, ma i versi con cui commentava in maniera eterna la sua vita di generoso solitario:

Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di sé tosto indubitabil mostra.

Or co’ vizi e i Tiranni ardito ei giostra,

ignudo il volto, e tutto il resto armato:

or, pregno in suo tacer d’alto dettato,

sdegnosamente impavido s’inchiostra;

l’altrui viltà la di lui guancia innostra;

né visto è mai dei Dominanti a lato.

Cede ei talor, ai tempi rei non serve;

abborrito e temuto da chi regna,

non men che dalle schiave alme proterve.

Conscio a sé di se stesso, uom tal non degna

l’ira esalar che pura in cor gli ferve;

ma il sol suo aspetto a non servire insegna.[52]

È questo il ritmo impavido che caratterizza l’Alfieri, e da questo tempo ideale giungono fino a noi i suoi versi di un atteggiamento perenne dell’uomo generoso, dell’uomo «Conscio a sé di se stesso», persuaso e sdegnoso di fronte alle piccole e turpi malefatte degli uomini che non sanno che servire od opprimere. In questo appartarsi rigoroso da ogni potente come se il potere portasse in sé il prepotere, l’abuso, la parola dell’Alfieri acquista la sua serietà piú risoluta, il suo timbro piú sincero. Tanto la sua passione vive di posizioni eterne, senza condizione. La politica perde il suo carattere di gara, di affare, di febbre eccitata dall’avvenimento favorevole o sfavorevole, diventa certezza dell’animo, indipendenza dai fatti e da ogni costrizione della forza.

Ciò che conta nell’Alfieri politico è l’uomo nuovo, l’impeto che batte sull’uomo intero e passionale. La soluzione viene data prima in termini generici e poco pensati, sí che facilmente il contatto delle attuazioni pratiche genera la delusione e il cervello vigoroso si mette alla ricerca di una soluzione piú equilibrata. Ma il problema dello Stato e dei rapporti delle classi non può esaurire la sua forza intima, e accanto alla sistemazione in universale nasce il bisogno della nazione fuori di ogni termine contrattualistico. Ma in verità né il cambiamento dovuto alla delusione né la soluzione piú senile toccano il punto nuovo che viveva piú esplicitamente nel primo momento e che consisteva nel dare alla politica una base passionale di necessità assoluta, un senso di liberazione religiosa da uno stato di miseria morale, di sonno dell’anima. Non un problema accanto agli altri, ma il primo problema che l’uomo deve risolvere se vuol vivere poi le sue esperienze particolari. È nel primo atteggiamento alfieriano di fronte alla libertà che piú vive la sua novità romantica, la sua importanza di annunciatore del Risorgimento.

Abbiamo visto cosí come l’idea della libertà sentimentalmente visse con un accento piú o meno forte, ma sempre puro nell’anima dell’Alfieri, e che su di essa si basa ogni espressione della sua personalità. Ma anche da essa e in parte dal nuovo valore dato al concreto, alla tradizione vivente, nasce in lui il senso della nazione e l’amore per la patria. Anzi se l’amore per la libertà rispondeva al senso piú nuovo di una liberazione dai limiti posti dalla vita, l’amore per la patria ha piú tono di una passione non ragionabile, e pure non di uno sfogo immediato quanto di uno di quei sentimenti che egli riteneva distinguessero gli uomini veri dai gelidi razionalisti. Naturalmente con la Rivoluzione francese questo sentimento acquista maggior campo e pare prendere quasi il posto del primo amore per la libertà. Ma mai riuscí a costruire un cielo di risonanze, un paesaggio intimo come il primo sentimento era riuscito a crearsi; mai riuscí a farsi arte, a bruciarsi in gridi tragici. E perciò ebbe anche un tono piú volitivo, di consiglio, di esortazione a creare un mondo nuovo oltre gli schemi illuministici.

Da giovane aveva distinto patria e luogo natio, spintovi dall’influsso inevitabile del cosmopolitismo illuministico e dalla provvisorietà delle patrie italiane regionali:

Oggi ha sei lustri, appiè del colle ameno

che al Tanaro tardissimo sovrasta,

dove Pompeo piantò sua nobil asta,

l’aure prime io bevea del dí sereno.

Nato e cresciuto a rio servaggio in seno,

pur dire osai: Servir, l’alma mi guasta;

loco, ove solo UN contra tutti basta,

patria non m’è, benché natio terreno.

Altre leggi, altro cielo, infra altra gente

mi dian scarso, ma libero ricetto,

ov’io pensare e dir possa altamente.

Esci dunque, o timore, esci dal petto

mio, che attristasti già sí lungamente;

meco albergar non déi sotto umil tetto.[53]

Patria dunque non era per lui il luogo natio se in esso vigeva il dispotismo, patria dunque era realtà solo se vi era un regime libero, viveva in finzione della libertà.

«Cosí, a quella terra dove si nasce, si dà nella tirannide risibilmente il nome di patria; perché non si pensa che patria è quella sola, dove l’uomo liberamente esercita, e sotto la securtà d’invariabili leggi, quei piú preziosi diritti che natura gli ha dati»[54]. Cosí nella Tirannide, nel capitolo intitolato «Del falso onore», chiarisce meglio e con una durezza che è dell’Alfieri migliore questa distinzione fra patria libera e terra natale in schiavitú: per la prima l’uomo deve morire, dalla seconda deve fuggire. Patria non si può chiamare «quel luogo dove per tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo sí fatto paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai piú, che nol farebbe il nemico?». Meglio cercarsi altro paese straniero, «non si potendo dir patria là dove non ci è libertà»[55].

Chi ’l crederia, pur mai, che un uom non vile,

per amar troppo il bel natio suo nido,

sordo apparendo di natura al grido,

spontaneo il fugga, quasi ei l’abbia a vile?

Eppur quell’un son io: ma in cor gentile

far penetrar l’alta ragion mi affido,

che mi sforza a cercare in stranio lido

come ardito adoprar libero stile.

Sacro è dover, servir la patria; e tale

(benché patria non è là dove io nacqui)

l’estimo io pur; né d’altro al par mi cale.

Quindi è, che al rio poter sotto cui giacqui,

drizzai da lungi l’Apollineo strale,

e in mio danno a pro d’altri il ver non tacqui.[56]

Ecco motivato il patriottismo degli esuli che, non potendo servire la patria restando in un paese tiranneggiato, andavano all’estero per vivere liberamente ed esprimere quelle esortazioni al paese natio affinché diventasse patria. Ma tale recisa, coraggiosa identificazione di patria con patria libera non teneva conto dell’elemento nuovo nazionale, che non permetteva di lasciare senz’altro con un semplice giudizio della ragione una terra che rappresentava l’umanità in concreto, l’eredità dell’individuo, il paesaggio a lui naturalmente piú consono, la terra della sua cultura.

La testimonianza dell’anima, col suo sdegnarsi contro la terra natale per i difetti dei suoi uomini, parlava a favore della patria nella sua entità piú ideale ed intima alla natura degli individui migliori che vi sono nati. V’è perciò nell’Alfieri un moto di sdegno non contro il singolo Piemonte che era per lui una regione, ma contro l’Italia per la sua decadenza, per la sua prontezza ad inchinarsi davanti alla tirannia. Si crea cosí un’Italia ideale del passato in cui la forza migliore della nazione si nutriva della libertà:

Qui Michelangiol nacque? e qui il sublime

dolce testor degli amorosi detti?

Qui il gran poeta, che in sí forti rime

scolpí d’inferno i pianti maladetti?

Qui il celeste inventor, ch’ebbe dall’ime

valli nostre i pianeti a noi soggetti?

E qui il sovrano pensator, ch’esprime

sí ben del prence i dolorosi effetti?

Qui nacquer, quando non venía proscritto

il dir, leggere, udir, scriver, pensare;

cose, ch’or tutte appongonsi a delitto.

Non v’era scuola allor del rio tremare;

né si vedeva a libro d’oro inscritto

uom, per saper gli altrui pensier spiare.[57]

La patria ideale veniva ricercata nel passato, si metteva a contrasto con la terra natale presente, ma con far ciò si indicava che un legame con quella terra c’era e che si desiderava che una nuova condizione di libertà permettesse all’Italia di ritornare la patria di una volta. C’era insomma in quella condanna il principio dell’amore, l’aspirazione ad una rinascita. E intanto l’Alfieri cominciava a sentire un valore intrinseco nell’anima italiana pur nella decadenza, negli elementi piú istintivi capaci ancora di barbare, ma grandi virtú. E da quel popolo italiano potenzialmente nazione era facile risalire ad una patria, qualunque fosse la sua condizione politica. Viveva nell’Alfieri prima di ogni contratto e di ogni realtà ed assumeva l’aspetto di un possesso sicuro di contro alle idee generiche, agli schemi razionalistici od empiristici del Settecento. Qui c’era una vita di sentimento, di volontà insopprimibile, di forze vitali male indirizzate, ma esistenti: c’era il materiale umano.

E quando nel 1792 di ritorno dalla Francia rientrava in Italia, la gioia del paese natio contiene una rinuncia al peregrinare per paesi stranieri, anche se piú liberi:

Per la decima volta or l’Alpi io varco;

e il Ciel, deh, voglia ch’ella sia l’estrema!

L’Italo suol queste ossa mie, deh prema,

poiché già inchina del mio viver l’arco!

Di giovenile insofferenza carco,

quando la mente piú di senno è scema,

io di biasmarti, o Italia, assunsi il tema,

né d’aspre veritadi a te fui parco.

Domo or da lunga esperienza, e mite

dai maestri anni, ai peregrini guai

prepongo i guai delle contrade avite.[58]

E cosí non piú una qualsiasi libertà è la prima qualità umana, ma la libertà nazionale.

La nazione libera diventa:

Quella sovrana Diva,

che dai bruti il verace uomo disgiunge.[59]

Del resto sia subito notato che a tutti gli uomini del Risorgimento a cominciare dall’Alfieri non poteva neppure passare per il capo che la nazione risorta e in realtà sorta proprio contro la tirannia, il sopruso, l’oppressione potesse mai svuotarsi del suo significato di libertà. Man mano dunque che egli chiariva a se stesso non tanto l’indirizzo della sua forza passionale quanto la sua esistenza, e le veniva creando una risonanza di simpatie, di preferenze coerenti, l’Alfieri metteva sempre piú alla base di una vera libertà l’esigenza nazionale, la concretezza di un organismo vitale. Il suo amore per la patria si precisava e si motivava non in termini generici, universalistici, ma proprio per la concordanza del suo sentimento con la potenza sentimentale del popolo italiano. Popoli liberi che egli pure ammirava come quello inglese, gli si mostravano però mancanti del calore essenziale che gli italiani benché schiavi possedevano. Cosí in un sonetto londinese trovava che l’amore vero è notissimo agli italiani, ma non agli inglesi:

Narrar sue pene ed esser certo almeno

ch’altri le intenda, e riconosca in esse

la immagin vera di sue angosce istesse,

è dolce sfogo al travagliato seno.

Questo conforto (ahi lasso!) a me vien meno

affatto omai, da che il destin mi elesse

ad abitar fra queste nebbie spesse,

per cui tolto ai Britanni è il ciel sereno.

Del mio signor né il nome pure ei sanno

questi gelidi cor, che ogni altro Iddio,

ch’oro non sia, per falso o inutil hanno.

Tutti i sospir dell’amoroso mio

fero dolor di là dell’Alpi or vanno;

ch’ivi almen trovan gente arder com’io.[60]

Il soggiorno in Toscana aveva poi dato modo all’Alfieri di incentrarvi questo amore per la patria in un primato linguistico che è prova di una natura superiore, espressione di qualità umane vere, non barbariche o artificiose:

Deh, che non è tutto Toscana il mondo!

Che il tanto lezzo almen, che in lui si spande,

saria temprato alquanto dal giocondo

parlare, a un tempo armonïoso e grande.

In dolce stile, a nullo altro secondo,

qui tal favella, cui nutriscon ghiande:

oltre Appennino, anco il gentile è immondo,

se voci a dir suoi sensi avvien ch’ei mande.

Non parlerò degli urli maladetti,

con che Sarmati, Galli, Angli e Tedeschi

son di vestire il lor pensiero astretti.

Ben è gran danno, che ignoranza inveschi

ora pur tanta i parlator sí pretti;

e nulla in lor, che il vuoto sòno, adeschi.[61]

Come si concilia la finale satirica con questo orgoglio nazionale? Proprio per un confronto tra le qualità durature, originarie di un popolo, di cui la lingua è la prima testimonianza, e le condizioni di frivolezza attuale nate dal servaggio:

Quattrocent’anni, e piú, rivolto ha il cielo,

da che il Tosco secondo, in carmi d’oro

si dolse aver canuto Italia il pelo,

e morta essere ad ogni alto lavoro.

Che direbbe or, s’ei del corporeo velo

ripreso il carco, all’immortal suo alloro

star sí presso mirasse il crudo gelo

d’ignoranza, che fa di sé tesoro?

E se sapesse, ch’ei non è piú inteso;

e, men che altrove, in suo fiorito nido,

ch’or è di spini e di gran lezzo offeso?

E s’ei provasse il secol nostro infido?

E s’ei sentisse or dei re nostri il peso?

E s’ei vedesse chi di fama ha grido?[62]

Anche questa coscienza dei rimproveri che gli antichi italiani potrebbero rivolgere ai viventi, dimentichi dei motivi per cui la nazione esiste, indica una maturazione intuitiva del nuovo concetto di patria come terreno ideale dell’individuo che non sorge astratto e solo, momentaneo e senza tradizione. Il Foscolo nei Sepolcri darà all’esempio dei grandi morti il valore di un superamento della morte nella concretezza della storia. Ma già con l’Alfieri i grandi del passato non restano vani monumenti decorosi; diventano voci di rimprovero, stimolo ad un futuro simile a quel passato: quel nuovo uso appassionato dei grandi uomini che indica sempre che si è vicini ad un nuovo periodo di vita spirituale. Francesco che riparla di Cristo, gli umanisti che parlano di Cicerone, Foscolo e Mazzini che parlano di Dante. È a queste rinascite non letterarie, ma passionali che si collegano i grandi movimenti rivoluzionari.

Questa sicurezza di una originalità nazionale italiana non esclude affatto la satira come principio di esortazione a rinnovarsi. E non deve stupire come contraddittoria l’affermazione di una disunione e insieme quella di una capacità a divenire la nazione degli uomini veri. Egli distingueva l’elemento apparente degli italiani, come erano raggruppati civilmente, da una forza di passione, da una energia che all’Alfieri si rivelava anche nella manifestazione dell’odio e del sangue piú tipico della popolazione italiana piú rozza e istintiva di contro alle qualità di inerzia degli italiani civilizzati, cui non risparmia la satira piú dura. Come fa in un famoso sonetto che, dopo aver caratterizzato satiricamente gli abitanti delle varie città italiane, conclude:

Tale d’Italia è la primaria gente:

smembrata tutta, e d’indole diversa;

sol concordando appieno in non far niente.

Nell’ozio e ne’ piacer nojosi immersa,

negletta giace, e sua viltà non sente;

fin sopra il capo entro a Lete sommersa.[63]

Abbiamo visto come l’Alfieri facesse dipendere l’amor patrio dall’essere nati in un paese libero:

Donna, s’io cittadin libero nato

fossi di vera forte alma cittade,

quel furor stesso, c’or di te m’invade,

d’egregio patrio amor m’avria infiammato.[64]

Ma in seguito, pur seguitando a mancarne la premessa, quel furore trovò modo di farsi anche amore di patria, desiderio di una patria futura, ostacolata dagli uomini vili e dai tiranni. Alla luce di questo chiarimento sul nazionalismo alfieriano, anche il Misogallo assume una importanza molto maggiore di quella che avrebbe avuto un semplice libello contro la Francia. Non è solo lo sfogo lunatico di un idealista che resta deluso al primo urto con la realtà, ma rappresenta, anche se cosí impuramente, la nascita di una volontà patriottica in Italia. Negando la Francia e la mentalità illuministica che vi dominava, l’Alfieri difendeva, affermava un’altra umanità, un’altra mentalità nel popolo italiano. In apparenza l’intenzione dell’autore era solo di render partecipi tutti i lettori della sua delusione nei riguardi della Rivoluzione francese, che avrebbe tradito la libertà con i suoi eccessi, i suoi disordini, la naturale frivolezza del popolo che l’aveva eseguita:

In mille guise, due sentenzie sole

questo Mescuglio garrulo racchiude:

che Libertà è virtude;

e, che i Galli esser liberi, son fole.[65]

Dunque un chiarimento nei riguardi della libertà e della contraffazione che, secondo lui, la Rivoluzione francese ne avrebbe costruito; ma in realtà subito la dedica della prima prosa «alla passata, presente, e futura Italia» accentua il carattere nuovo del libro nella sua natura di appello ad una nazionalità affinché dal contrasto con una falsa liberazione e con una reale oppressione straniera risorgesse come nazione veramente libera, vedesse la propria possibilità di diventare ciò che la Francia non era. «Ancorché quest’Operuccia, nata a pezzi ed a caso, altro non venga ad essere che un mostruoso aggregato d’intarsiature diverse, ella tuttavia non mi pare indegna del tutto di esserti dedicata, o venerabile Italia. Onde, ed a quella augusta Matrona che ti sei stata sí a lungo, d’ogni umano senno e valore principalissima sede; ed a quella, che ti sei ora (purtroppo!) inerme, divisa, avvilita, non libera, ed impotente; ed a quella che un giorno (quando ch’ei sia) indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera, ed Una; a tutte tre queste Italie, in questa mia breve dedica, intendo ora di favellare. – Gli odj di una Nazione contro l’altra, essendo stati pur sempre, né altro potendo essere che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti, o temuti; non possono perciò esser mai, né ingiusti, né vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odj soltanto hanno operato quei veri prodigj politici, che nell’Istorie poi tanto si ammirano»[66]. Non è questo l’atto di nascita del sentimento risorgimentale? Già le parole con cui l’Italia viene ammirata nella sua grandezza tradizionale, disprezzata nel presente, voluta nel futuro vicino («sei per risorgere») «virtuosa, magnanima, libera, ed Una», indicano la fonte sentimentale da cui nasceranno gli ideali del Risorgimento quanto alla nuova Italia. Il senso di nazione è tutto nuovo, antiregionalistico, ed è perciò che l’Alfieri si sentí inizialmente senza patria, anche se a ciò lo spingeva soprattutto l’esigenza della libertà:

«Nel dir Nazione, intendo una moltitudine d’uomini, per ragione di clima, di luogo, di costumi, e di lingua, tra loro diversi: ma non mai due Borghetti o Cittaduzze d’una stessa Provincia, che per essere gli uni pertinenza es. gr. di Genova gli altri del Piemonte, stoltamente adastiandosi, fanno coi loro piccioli inutili ed impolitici sforzi ridere e trionfare gli Elefanteschi lor comuni oppressori»[67]. L’unità nazionale la trovava in una comunanza di tradizione e di lingua, specie di lingua, che per lui è la prima espressione spirituale d’un organismo di popolo: «Insisto su questa Unità dell’Italia, che la Natura ha sí ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente dell’Europa. Onde, per quanto si vadano abborrendo tra loro es. gr. i Genovesi e Piemontesi, il dire tutti e due , li manifesta entrambi per Italiani, e condanna il lor odio. E Ancorché il Genovese innestandovi il C ne faccia il bastardume Scí, non si interpreta con tutto ciò codesto Scí per Francesismo, che troppo sconcia affirmativa sarebbe; e malgrado il C di troppo, i Genovesi per Italiani si ammettono. E nello stesso modo es. gr. i Savoiardi e i Francesi, dicendo tutti e due Oui, sono, e meritano d’essere una stessa Nazione»[68]. In piú v’è lo stimolo dell’odio, «quasi un tutelare conservatore dei Popoli veramente diversi, e tanto piú di quelli, che per estensione e numero riescono minori»[69], che rappresenta la leva impulsiva di una unificazione e liberazione nazionale. In questo odio c’è lo sfogo alfieriano, e porta con sé perciò un che di bilioso, senile, e anche un po’ di ridicolo nelle sue escogitazioni lambiccate. Ma da un punto di vista storico è l’indice di una volontà di azione che non sboccia (specie in un periodo di decadenza e a quel preciso punto della storia dello spirito che voleva la differenziazione nazionale come concretarsi di forme fino allora utopistiche e generiche) da una serena valutazione dell’ideale, ma da un sentimento di opposizione, di sdegno, di rivalità. Il Risorgimento nelle sue manifestazioni piú pure fu tanto piú alto di quell’odio perché la sua origine non fu solamente sentimentale. C’era proprio il rimpianto e l’esempio d’una vita civile esperimentata sia pure frammentariamente, di quei governi instaurati dalla Rivoluzione francese; c’era la base di una realtà, di una esperienza, di una tradizione sia pur minima. C’era la fede rinnovata in un progresso, in una evoluzione spirituale dell’umanità che dava ai nazionalismi piú spinti lo stimolo della gara e non dell’odio.

Il Risorgimento ebbe una generosità che derivava anche dalla consapevolezza chiara degli ideali, dei mezzi di una missione che passava oltre gli scopi nazionalistici e li inseriva, specie in Mazzini, in una visione vasta di libertà, di collaborazione libera dei popoli indipendenti. Il Risorgimento perse quel che di convulso e di agro c’era nel Misogallo, ma ne conservò e sviluppò i motivi centrali dell’unità posta non contrattualisticamente, ma dalla coscienza romantica della tradizione e dalla volontà romantica di essere organismo e non somma di individui. E certo se Misogallo era avversione per lo straniero in quanto oppressore, anche il Risorgimento ebbe la sua potente avversione antiaustriaca. Si ripensi agli inni, alle poesie patriottiche e come in tutti risuona il «va fuori straniero», l’avversione per «l’irto increscioso alemanno» perché oppressore, oppressore della nazione e della libertà. Ma alla generosità romantica manca il senso di eternità che l’Alfieri voleva dare all’odio contro i francesi: «Tornerà poi frattanto quel tempo, in cui annullata nei Francesi ogni troppo spareggiante ampiezza di mezzi e di numero; e sparita in te ogni tua viltà di costumi, divisioni, e opinioni; grande tu allora in te stessa, dall’averli odiati e spregiati temendoli, maestosamente ti ricondurrai all’odiarli e spregiarli, ridendo»[70]. Il Risorgimento, che tanta piú ragione avrebbe avuto di odiare e disprezzare i suoi oppressori, non chiedeva loro che di andarsene:

Passate l’Alpi e tornerem fratelli.

Pure quel certo metodo di ritrovare nella storia italiana ragioni di risentimento contro i francesi fu seguito dagli uomini del Risorgimento che nei loro romanzi, nelle loro tragedie non fecero altro che descrivere lotte fra stranieri e italiani, episodi di oppressione e tentativi di liberazione da parte degli italiani: cercavano anch’essi nel passato la loro tradizione antigermanica come l’Alfieri aveva cercato di nobilitare con la storia la sua passione antifrancese. Se nel Misogallo si guarda il valore universale che l’Alfieri voleva dare al suo odio antifrancese, si sente aumentata quasi fino al ridicolo la sproporzione tra il caso concreto e lo sforzo titanico non seguito che da velleità, e che tanto piú puro era nell’opposizione fresca e drammatica alla figura del tiranno sentita come una divinità maligna e potente. Mentre nel Misogallo l’Alfieri tentava di ridicolizzare i suoi avversari, di cui non volle mai sentire la grandezza:

Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buoni.[71]

Buoni ad ogni modo che lí per lí non si sa bene se siano i nemici della Rivoluzione o piuttosto quegli italiani ancora non risorti, ma aventi la capacità di una vera vita civile. Invece di vedere nei francesi una forza mostruosa e terribile egli vuole ridurli spregevoli, incalcolabili perché li vede presenti in tutte quelle piccole manchevolezze che nel tiranno immaginario non poteva vedere. La sua freschezza si era inaridita, egli aveva trovato la via d’uscita piú breve e meno lecita ai suoi umori, che offuscavano se non sopprimevano la vecchia passione di libertà.

Ciò rende infelici le opere del nuovo periodo, ma non urta la coerenza della posizione fondamentale: libertà di uomini che fortemente sentano. Cosí, se aveva giudicato i francesi incapaci di vivere liberamente e li aveva chiamati “liberti”, cioè schiavi liberati, ma con animo ancora servile, gli italiani li sentiva come una moltiplicazione di se stesso, uomini dotati di energiche passioni. Con un trapasso rapido del desiderio egli li vedeva già come lui anche nei riguardi della politica: schiavi, ma frementi, impazienti di liberarsi e perciò piú liberi dei francesi che erano stati lieti di servire:

Di libertà maestri i Galli? Insegni

pria servaggio il Britanno; insegni pria

umiltade l’Ispano; o codardia,

l’Elvezio; o il Trace, a porre in fiore i regni.

Sian dell’irto Lappon gli accenti, pregni

di Apollinea soave melodia:

Taide anzi norma alle donzelle dia

di verginali atti pudichi e degni.

Di libertà maestri i Galli? e a cui?

A noi, fervide ardite Itale menti,

d’ogni alta cosa insegnatori altrui? −

Schiavi or siam, sí; ma schiavi almen frementi;

non quali, o Galli, e il foste e il siete vui;

schiavi, al poter qual ch’ei pur sia, plaudenti.[72]

C’era nei riguardi degli italiani una nobile contraddizione tra ciò che appassionatamente rimproverava loro fino a negarli vivi e poi l’apprezzamento delle loro qualità magnanime, fino a farne quello che solo nel Risorgimento in parte divennero. Ma è una contraddizione feconda e che rivela lo scarso conto che egli faceva di una coerenza dove entravano le sue passioni.

L’amore per la nazione era l’elemento nuovo che egli esprimeva dal suo nuovo senso del concreto, la condizione del suo individualismo non astratto, desideroso di una tradizione, di una radice che facesse salire un succo di vita alle sue parole.

Uom, cui nel petto irresistibil ferve

vera di gloria alta divina brama;

nato in contrada ove ad un sol si serve,

come acquistar mai puossi eterna fama?

Dal volgo pria dell’alme a lui conserve

si spicca, e poggia a libertà che il chiama,

attergandosi e l’ire e le proterve

voglie del Sir, che la viltà sol ama.

Ma poi convinto, che impossibil fora

patria trovar per chi senz’essa è nato,

benché lungi, al suo nido ei pensa ognora

liberarlo col brando non gli è dato:

con penna dunque in un se stesso onora

e a’ suoi conoscer fa lor servo stato.[73]

Qui si riassommano gli elementi della passione politica alfieriana e l’attacco giustificato della sua arte: la mancanza di libertà toglie la possibilità della gloria cui tende il suo animo desideroso di immortalità, donde il primo movimento di fuga dalla patria serva e poi il prevalere dell’amore per la terra natale. E poiché lo scrittore non può liberare la patria con le armi, concilia nello scrivere la ricerca della gloria, la sua missione di nunzio della libertà e il suo amore per la patria stimolandola a liberarsi.


1 Del Principe e delle lettere, Libro II, cap. VII; in Scritti politici e morali, I cit., p. 170.

2 Rime cit., p. 16.

3 L’Etruria vendicata, Canto I, vv. 103-104; in Scritti politici e morali, II cit., 1966, p. 6.

4 Vita cit., I, p. 61.

5 Satira XI, La Filantropinería, vv. 37-39; in Scritti politici e morali, III cit., p. 161.

6 Satira XIV, La Milizia, vv. 127-129; ivi, p. 182.

7 Vita cit., I, p. 98.

8 Ivi, p. 104.

9 Ivi, pp. 104-105.

10 Ivi, p. 107.

11 Ivi, p. 86.

12 Ivi, p. 87.

13 Lettera al Presidente della Plebe Francese, 18 novembre 1792; in Epistolario cit., II, p. 95.

14 L’America libera, ode II, vv. 62-63 e 65-72; in Scritti politici e morali, II cit., p. 84.

15 Vv. 17-31; ivi, pp. 77-78.

16 Ode V, vv. 113-128; ivi, p. 100.

17 Vv. 49-96; ivi, pp. 97-99.

18 Cfr. Primi tentativi, II, vv. 25-33, 40-45; in Rime cit., pp. 320-321. Per le censure del Paciaudi cfr. ivi, pp. 323-324.

19 Della Tirannide, Libro I, cap. III; in Scritti politici e morali, I cit., p. 21.

20 Satira IX, I Viaggi, cap. II, vv. 130-131; in Scritti politici e morali, III cit., p. 144.

21 Son. 162, v. 14; Rime cit., p. 137.

22 Panegirico di Plinio a Trajano, V; in Scritti politici e morali, I cit., p. 305.

23 Scritti politici e morali, I cit., p. 260.

24 Ivi, p. 263.

25 Ivi, p. 261.

26 Il Misogallo, son. XIX, vv. 13-14; in Scritti politici e morali, III cit., p. 266.

27 Epigramma XIII; Rime cit., p. 183.

28 Son. 16; ivi, p. 14.

29 Della Tirannide, Libro I, cap. VIII; Scritti politici e morali, I cit., pp. 44-45.

30 Ivi, p. 46.

31 Ivi, p. 48.

32 Filippo, At. III, sc. 5, vv. 189-190 ed. C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1952, p. 54.

33 Della Tirannide, Libro I, cap. VIII; Scritti politici e morali, I cit., p. 50.

34 Il Misogallo, son. X, vv. 1-8; Scritti politici e morali, III cit., pp. 249-250.

35 Lettera del 22 dicembre 1789; Epistolario cit., II, p. 24.

36 Son. di Introduzione a Parigi sbastigliato, vv. 12-14; in Scritti politici e morali, II cit., p. 103.

37 Cfr. Epistolario cit., II, pp. 5-6.

38 Lettera a Giacinto Cumiana, settembre 1778; Epistolario cit., I, p. 65.

39 Lettera al marchese Roberto Alfieri di Sostegno, 20 novembre 1796; Epistolario cit., II, p. 193.

40 Parere sulle tragedie e altre prose critiche, ed. M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, pp. 125-126.

41 Il Misogallo, son. III; Scritti politici e morali, III cit., pp. 238-239.

42 Il Misogallo, Prosa quarta; ivi, pp. 304-305.

43 Intenzione dell’Autore, nell’Appendice del Misogallo degli Scritti politici e morali, III cit., p. 517.

44 Epistolario cit., III, p. 133.

45 Il Misogallo, Prosa seconda; Scritti politici e morali, III cit., p. 207.

46 Della Tirannide, Libro I, cap. VII; Scritti politici e morali, I cit., p. 41.

47 Libro II, cap. VIII; ivi, p. 106.

48 Agide, At. IV, sc. 3, vv. 121, 196-201, 282-290; ed. R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, pp. 59, 62 e 65-66.

49 Il Misogallo, son. XXVII; Scritti politici e morali, III cit., p. 314.

50 Il Misogallo, son. XVI, vv. 1-11; ivi, p. 261.

51 L’Antidoto, At. V, sc. ultima; in V. Alfieri, Commedie, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. F. Forti, 3 voll., Asti, Casa d’Alfieri, 1953-1958, II, pp. 225-228.

52 Son. 288; Rime cit., p. 234.

53 Son. 37; Rime cit., p. 34.

54 Della Tirannide, Libro I, cap. X; in Scritti politici e morali, I cit., p. 56.

55 Libro I, cap. VII, ivi, pp. 42-43.

56 Son. 183; Rime cit., pp. 153-154.

57 Son. 40; ivi, p. 37.

58 Son. 262, vv. 1-11; ivi, pp. 216-217.

59 Parigi sbastigliato, vv. 215-216; in Scritti politici e morali, II cit., p. 111.

60 Son. 99; Rime cit., pp. 87-88.

61 Son. 110; ivi, p. 96.

62 Son. 116; ivi, p. 101.

63 Son. 143, vv. 9-14; ivi, pp. 122-123.

64 Son. 168, vv. 1-4; ivi, p. 142.

65 Il Misogallo, Avviso al lettore, vv. 1-4; in Scritti politici e morali, III cit., p. 197.

66 Il Misogallo, Prosa prima; ivi, pp. 198-199.

67 Ivi, p. 198, nota 2 (alla parola «Nazione» del passo precedentemente citato).

68 Ivi, pp. 198-199, nota 3.

69 Ivi, p. 199.

70 Ivi, p. 201.

71 Il Misogallo, Il fine; ivi, p. 411.

72 Il Misogallo, son. XVIII; ivi, pp. 264-265.

73 Son. 186; Rime cit., p. 156.